Max Wertheimer

1. Introduzione

Due grandi prospettive hanno caratterizzato la psicologia di inizio Novecento: quella sperimentale e quella fenomenologica. Con la prima ci riferiamo al modo di intendere lo studio della psicologia da parte di Wilhelm Wundt e di Titchener. Con la seconda ci riferiamo in particolare all’opera di Franz Brentano e a tutte le scuole e correnti nate più o meno direttamente da questa, fino alla “Gestalt”, la massima espressione delle psicologie europee che potremmo definire “antistrutturaliste”, fondata da Max Wertheimer.

2. Da Wundt alla Gestalt

Wundt chiamò il suo sistema Psicologia fisiologica, con un’espressione che per lui era sinonimo di Psicologia sperimentale. La psicologia differiva secondo Wundt dalle scienze naturali per l’oggetto di studio: la psicologia studia l’esperienza diretta o immediata, le scienze naturali l’esperienza mediata (dalla concettualizzazione e dagli strumenti). Il metodo privilegiato era allora quello dell’introspezione, attraverso il quale era possibile rilevare cosa avviene nel momento in cui si esperisce immediatamente la realtà. Il termine strutturalismo venne coniato da un suo allievo, Edward B. Titchener, di origine inglese, che portò le idee del maestro negli Stati Uniti. Egli attribuisce alla psicologia sperimentale lo studio della struttura: essa deve essere una “psicologia strutturale” che cerca di descrivere cosa vi è nella mente, senza fare riferimento alla funzione degli elementi strutturali.

La caratteristica più saliente che contraddistingue la psicologia di Brentano è il concetto di intenzionalità, che è alla base della sua teoria della rappresentazione e della sua classificazione dei fenomeni psichici.

3. La psicologia della Gestalt (o psicologia della forma)

La scuola psicologica della Gestalt fu senza dubbio la più importante e innovativa degli inizi del Novecento. L’attacco della Gestalt all’introspezione analitica, il suo programma di procedere dal sopra al sotto (oggi diremmo “top-down”) piuttosto che dal sotto al sopra secondo le impostazioni passate, tutto ciò spinse a riconsiderare non solo i metodi e le teorie allora correnti, ma anche i dati scelti per la manipolazione sperimentale. Il 1912 è l’anno in cui solitamente si colloca la nascita ufficiale della psicologia della Gestalt, anno in cui furono pubblicati i primi risultati di due anni di ricerche condotte da Max Wertheimer, assistito da Wolfgang Köhler e Kurt Koffka, e che possiamo così riassumere:
– in genere le nostre esperienze, lungi dall’essere impressioni caotiche, non sono presenti alla coscienza come somme o collezioni di elementi, ma ognuno di questi si compone con una caratteristica appartenenza agli altri; definiamo Gestalten ["gestalten" è il plurale di "gestalt"] queste esperienze strutturate;
quel che in ultima analisi si percepisce possono essere "oggetti" nel più ampio senso del termine, o possono essere reti di relazioni; si tratta di qualcosa di più e diverso della totalità sommata degli elementi individuali; le qualità del tutto possono di fatto raggiungere la coscienza prima delle parti individuali;
– la Gestalt balza fuori dalla collezione caotica degli elementi, e gli elementi individuali ricevono di conseguenza una certa impronta dal concetto totale.
– vale la legge della pregnanza (con questo termine i gestaltisti intendevano una serie di caratteristiche che rendono una forma particolarmente armonica, simmetrica, semplice etc.), per cui un cerchio è più “buono” di un ovale, o un angolo retto è più caratteristico di un angolo di 88 gradi (che sarà inteso

come “quasi” retto, mentre non accadrà mai l’opposto);
– vale la legge dell’esperienza passata (per i gestaltisti l’esperienza non poteva giocare alcun ruolo determinante nei processi psicologici - sotto questo punto di vista erano degli innativisti - ma era comunque in grado di orientare tali processi in particolari direzioni piuttosto che in altre):

     Le tre linee sono interpretate, grazie all’esperienza passata, come le ombreggiature di una E illuminata dall’alto in basso e da sinistra a destra; una volta “vista” la figura, non sarà più possibile non vederla.

Riassumendo i principi caratterizzanti la psicologia della Gestalt, potremmo dire che i gestaltisti affermavano una supremazia della struttura globale, organizzata (la "forma", la "gestalt") sulle parti componenti (la loro semplice associazione non dà luogo alla "forma"). Un'espressione che evidenzia l’anti-elementismo di questa scuola potrebbe essere: “Il tutto precede le parti, che assumono significati diversi a seconda del tutto di cui sono parti”.

4. Il pensiero produttivo

Se spezzo una lancia in due il risultato non è due lance, ma, forse, un pezzo di lancia (con la punta) ed un pezzo di legno (il resto dell’asta): Wertheimer affermava la supremazia della Gestalt sulle sue parti componenti: né la logica aristotelica tradizionale, né la moderna logica matematica costituiscono delle guide appropriate alla realtà psicologica. Come vedremo, Wertheimer opera una distinzione tra le funzioni assolte dalla logica e le funzioni permesse dal pensiero produttivo, che introduce (nel libro Il pensiero produttivo) con questa frase: "Di tanto in tanto, il nostro pensiero funziona davvero in modo proficuo, si fa strada, scopre nuovi orizzonti. Che cosa avviene allora effettivamente?". Wertheimer per illustrare ciò riflette sulla famosa scoperta del piccolo Gauss.

Quando Gauss aveva sei anni e frequentava la scuola elementare, un giorno il maestro diede un compito di aritmetica alla classe: trovare il più velocemente possibile la somma di 1+2+3+4+5+6+7+8+9+10. Molto presto, quando i suoi compagni erano ancora assorti nei calcoli, il piccolo Gauss, di fronte allo stupore del maestro, rispose: "Se l’avessi fatto sommando 1 più 2, poi 3 al risultato, poi 4 al nuovo risultato, e così via, avrei impiegato molto tempo, e cercando di arrivare presto molto probabilmente avrei fatto degli sbagli. Ma vedete, 1+10 fa undici, 2+9 fa di nuovo – deve fare? – undici. E così via. Vi sono cinque coppie di questo tipo: 5 volte 11 fa 55.”. Dovrebbe essere evidente che una simile nuova “visione” del problema (o ristrutturazione!) non possa essere spiegata con i termini della logica, che non sono in grado di rendere conto di come all’improvviso ci si possa accorgere che c’è una relazione tra la somma e il fatto che la sequenza progredisce ad intervalli costanti, cosicché il nove, ad esempio, non viene visto come tale, ma come dieci-meno-uno, e il due, a sua volta, come uno-più-uno. Così ci si accorge che togliendo da una parte si aggiunge dall’altra, e il risultato è sempre undici.

Nel primo capitolo del suo Pensiero produttivo Wertheimer si serve di un semplicissimo problema di geometria. Egli si trova in una classe di bambini, ai quali l’insegnante ha spiegato come si trova l’area del rettangolo (tutti sanno dirlo: “È uguale al prodotto dei due lati”). Allora l’insegnante disegna alla lavagna un parallelogrammo e insegna loro come tracciare l’altezza e quindi come trovare l’area (il prodotto della base per l’altezza).

Apparentemente è tutto semplice, e sembra che i bambini abbiano capito come trovare l’area di un parallelogrammo. Il giorno successivo, un bambino ripete la lezione del giorno precedente alla lavagna. “Si vede che ha imparato il problema”, scrive Wertheimer. Senonché, lo stesso Wertheimer trova troppe coincidenze favorevoli (e superficiali, come diverrà chiaro più avanti) tra il rettangolo e il parallelogrammo mostrati alla classe dall’insegnante, tanto da chiedersi se gli alunni abbiano veramente afferrato il punto centrale dell’argomento. Come posso stabilirlo? Che cosa posso fare?”. Propone allora alla classe questa nuova figura.

A questo punto, i dubbi di Wertheimer circa l’effettiva comprensione del problema da parte degli allievi sono confermati dall’osservazione di uno scolaro: “Signor maestro, non l’abbiamo ancora studiato.” Altri rimangono perplessi, altri ancora scrivono decisi sotto la figura che hanno copiato: “L’area è uguale alla base per l‘altezza.” Una derivazione esatta, ma cieca; quando, infatti, si chiede loro di dimostrare che ciò sia vero, rimangono anch’essi perplessi.

Ma ci sono altri che vedono un’altra figura. “Le loro facce si illuminano: sorridono e tracciano le seguenti linee nella figura, oppure girano il foglio di 45° le tracciano”:

Per entrare più a fondo nella natura di questi fenomeni, Wertheimer propone alcune varianti del problema:

ottenendo ancora due tipi di risposte: A (così chiama le risposte scaturite da procedimenti genuini, intelligenti, di pensiero) e B (i procedimenti ciechi, la mera applicazione di quanto imparato in precedenza).

Qual è la differenza centrale tra i due tipi di risposte? Qual è, psicologicamente, il punto in discussione? Come riesce il soggetto a trovare la risposta A? Quali fattori decidono, nella mente dello scolaro, tra i procedimenti A e quelli B?”. Vediamo allora quali ipotesi potrebbero spiegare questa differenza:

Prima ipotesi: la differenza è estremamente chiara. Le risposte B non portano alla soluzione corretta, mentre le risposte A sì. Ma questa asserzione si limita ad esporre il problema senza risolverlo.

Seconda ipotesi: il fattore decisivo è il grado di somiglianza rispetto al problema originale. No. La somiglianza in effetti conta, ma quale genere di somiglianza? Infatti, visti nelle loro parti costitutive, i casi B sono più simili all’originale che i casi A.

Terza ipotesi: si può spiegare il punto in questione in base alla “generalizzazione”? No. La generalizzazione è senz’altro implicita in tutti questi casi, ma un’inadeguata risposta B può contenere lo stesso grado di generalizzazione di una risposta A. Così, la generalizzazione non è in sé di nessun aiuto. Potrebbe servire, naturalmente, se parlassimo di generalizzazione operata in base a una soluzione appropriata”. Ma così dicendo cosa intenderemmo? Che porta alla soluzione? In questo caso si tratterebbe di nuovo di una proposta simile alla prima.

Quarta ipotesi: la situazione rimane immutata se si afferma (giustamente) che i vari casi A sono caratterizzati dal fatto che in essi si colgono i caratteri essenziali, si coglie ciò che è davvero rilevante. Ma cos’è questo “cogliere”? Che cosa significa “caratteri essenziali”? Che cosa determina quello che è essenziale e quello che non lo è? Solo il risultato? Anche in questo caso, infatti, torneremmo alla prima, insoddisfacente, ipotesi.

Risulta evidente che le ipotesi 2, 3, e 4 non stabiliscono una differenza soddisfacente tra le reazioni e i casi A e B, a meno che le si integri con l’ipotesi 1, che stabilisce una effettiva differenza, basata però solo sulla riuscita. Ciò però non solo non ci fornirebbe una spiegazione plausibile, ma, per così dire, non ce la fornirebbe affatto, consegnandoci al più una descrizione. In tal modo nessuna delle ipotesi precedentemente illustrate, in sé e per sé considerate, conduce a una effettiva comprensione psicologica.

Cosa caratterizza allora un processo genuino di pensiero? Quali sono le sue caratteristiche? Per rispondere a questa domanda Wertheimer ritorna al calcolo dell’area del rettangolo, cercando di coglierne i passaggi veramente essenziali:

1) Qual è l’area del rettangolo? Non lo so: in che modo posso arrivarci?

2) Ho la sensazione che ci debba essere un’intima relazione tra queste due cose: la misura dell’area e la forma del rettangolo. Qual è? Come posso trovarla?

3) Posso vedere l’area come la somma dei quadratini di misura unitaria contenuti nella figura. E la forma? Non è una figura qualsiasi, i quadratini non sono disposti in maniera indifferente; devo comprendere come sia costruita l’area di questa figura!

4) I quadratini non sono forse organizzati in questa figura oppure organizzabili in maniera tale da portare a una chiara visione strutturale del totale? Oh, sì. La lunghezza della figura è uguale in tutta la sua estensione, e questo ha qualcosa a che vedere con il modo in cui è costruita l’area! Le file diritte parallele di quadratini si sovrappongono verticalmente in uguaglianza reciproca, chiudendo così la figura: da un capo all’altro ho delle file di lunghezza uguale che insieme formano la figura completa.

5) Voglio il totale; quante file ci sono? Ecco, la risposta è indicata dall’altezza, il lato a. Quanto è lunga una fila? Ovviamente la lunghezza è data da quella della base, b.
6) Devo quindi moltiplicare b per a! (questa non è una moltiplicazione di due elementi di grado uguale: è fondamentale, nel passaggio, comprendere la loro caratteristica funzione).

In questa strutturazione del rettangolo la questione dell’area diventa chiara. La struttura ottenuta viene vista comprensivamente e con evidenza. Si giunge alla soluzione attraverso la comprensione dell’intima relazione strutturale tra area e forma. È stato detto che la natura del pensiero produttivo consiste nell’uso di relazioni. In realtà, il fattore decisivo è vedere le relazioni richieste dalla struttura, che sono tali in funzione della struttura, coessenziali ad essa. Parlare di relazioni qualsiasi, invece, non distingue i processi genuini da quelli “brutti”, che comportano l’uso di relazioni non meno dei primi.

Così, anche nel caso del parallelogrammo, è proprio questa comprensione dell’intima relazione strutturale tra area e forma a caratterizzare il procedimento dei bambini che risolvono il problema, che culmina nell’accorgersi che "quello che non va bene qui (una estremità della figura) è proprio ciò che serve qui (estremità opposta)." Così, l’intima conoscenza della struttura del rettangolo ha fatto riconoscere nel parallelogrammo un rettangolo trasformato, riconducibile ad una configurazione facilmente calcolabile. È ormai chiaro che questa “calcolabilità” non è data dalla conoscenza della formula appresa, ma dalla visione di questa formula, derivante dalla natura della struttura.
[Naturalmente quello descritto qui è solo uno dei modi in cui si può motivare la "formula" per il calcolo dell'area di un parallelogramma. Ciò che interessa sono le riflessioni "didattiche" che esso suscita. Per un altro modo più efficace vedi ad esempio qui].

5. Un altro esempio (la finestra)
Wertheimer propose a diversi soggetti questo problema:
"Al pittore che sta pitturando le pareti interne di una chiesa viene chiesto di decorare una finestra circolare tracciando due segmenti verticali tangenti al cerchio lunghi quanto il diametro e, a partire da questi, due semicerchi, nel modo raffigurato a lato. Gli viene richiesto di ricoprire di uno strato d'oro la superficie tra queste linee e la finestra. La finestra ha diametro di 1 metro. Quanto è estesa questa superficie?"
Alcuni bambini raggiunsero la soluzione in circa un minuto, altri ebbero bisogno di molto aiuto, alcuni adulti molto colti ebbero grandi difficoltà ad affrontarlo.
  
Perché?

Qualche risposta di soggetti colti, che sono stati dietro al problema per quasi mezz'ora:  "Certo devo essere in grado di risolverlo. Vediamo … quali teoremi circa il calcolo dell'area mi servono. Se soltanto questa fosse una vera ellisse … ma non lo è … Quali teoremi conosco circa quelle figure che hanno per perimetro un lato rettilineo ed uno circolare …",  "Devo sommare l'area di due semicerchi all'area di un quadrato meno l'area del cerchio inscritto in essa; devo fare (4−π)/4; oppure no? è esatto? …".
Un altro adulto invece, dopo un po' di esitazioni, improvvisamente esclamò "Che cieco sono stato! Com'è facile! Porto i due semicerchi dentro e mi rimane un quadrato. È un problema eccellente!". Un bambino di 10 anni, dopo aver detto "non ho la minima idea di come si facciano queste cose", osservata meglio la figura, disse tranquillamente "i due semicerchi devono stare dentro la finestra: è il quadrato intero!".
È la nuova “visione” del problema, la sua ristrutturazione, che mette in moto la strategia risolutiva.

6. Conclusioni

Paolo Bozzi, nella sua introduzione all’edizione italiana di Pensiero Produttivo, segnala come negli ambienti della ricerca scientifica si consideri “vecchio tutto quello che non è molto recente”, spiegando questa tendenza con la difficoltà di tradurre il linguaggio di un autore del passato nei termini di un linguaggio tecnico successivo, spesso inconciliabile. Appare emblematica, in questo senso, la critica da più parti rivolta a Wertheimer di mancanza di dati quantitativi: Wertheimer non ci comunica mai informazioni relative ai tempi di risposta, al numero di errori commessi, al numero delle persone che risolvono il problema e che non ci riescono. A questi critici sfugge però il senso autentico del lavoro di Wertheimer, il quale, del resto, ha anticipato le loro obiezioni: “Se il lettore ora mi chiedesse: prima hai detto che alcuni hanno risolto il problema e altri no; ma quanti lo hanno risolto? Quanti hanno sbagliato? Quanti anni avevano? – vorrebbe dire che non hanno colto il senso del problema.”.

Se davvero volessimo giudicare scientificamente il metodo di Wertheimer, arriveremmo forse a definirlo un non-metodo. Eppure, sfogliando l’indice di Pensiero Produttivo ci si accorgerà che il nono capitolo descrive il procedimento che portò Galileo alla scoperta della legge d’inerzia, mentre il decimo illustra il procedimento di pensiero che portò Einstein (grande amico di Wertheimer) verso la scoperta della teoria della relatività. Ci si accorgerà che né Galileo né Einstein (non solo due scienziati, ma due padri della fisica moderna!) ricorsero a un “metodo”, ma percorsero una strada, nel loro ragionamento, strutturalmente identica (anche se, certamente, molto più complicata) a quella percorsa da Gauss, bambino, o, per esempio, dai bambini che hanno risolto il problema della finestra.

Riferimenti

Wertheimer, M. (1945,1959/1997). Productive Thinking. New York: Harper [trad. it. Il pensiero produttivo, a cura di P. Bozzi. Firenze: Giunti.]

Alcune parti sono estratte da una pubblicazione di Lorenzo Masoni.
Approfondimenti sono reperibili o accessibili da qui.