Così Fortebraccio schiaffeggiava lor signori
«Una scelta di giustizia». Così, con una punta di agiografia, Enrico Berlinguer definì il passaggio del giornalista Mario Melloni (1902-1989) dal Popolo, quotidiano della Dc di cui era stato direttore, alla comunista Unità. Lì Melloni diventò un popolare autore di corsivi con lo pseudonimo shakespeariano di "Fortebraccio". Dallo Scudo crociato era uscito fin dal 1954, dopo aver votato alla Camera contro il Patto Atlantico. Un prosatore, incline come lui a uno stile salottiero un po' da anni Trenta, divenne, così, titolare di una rubrica dell'Unità destinata a riscuotere largo successo. «Io sono un giornalista d'élite: e infatti scrivo per i metalmeccanici». Espressa con il piglio di chi intenda - come dire? - "épater les prolétaires", fu questa la scommessa di Melloni. A misurare fino a che punto essa sia riuscita ci aiuta un volume ora apparso nella Bur: Fortebraccio, Facce da schiaffi, a cura di Filippo Maria Battaglia e Beppe Benvenuto. La galleria è gremita di maschere. Tre sono i giacimenti dai quali l'autore le estrae: l'ambiente dei padroni (detti «lor signori»), la politica e il giornalismo. Ecco ad esempio lo storico presidente della Confindustria, Angelo Costa che, «quando parla, licenzia sempre qualcuno». Segue una chiosa impagabile: stiamo parlando, precisa il corsivista, del capo degli imprenditori italiani. «Imprenditori, come dicono coloro che credono di essere riguardosi chiamando israeliti gli ebrei». Dalla vocazione di Giuseppe Petrilli, presidente a vita dell'Iri, hanno origine sia il verbo «petrillare» («io petrillo, tu petrilli»), sia «la carica del petrillaggio a vita, trasmissibile agli eredi». Non a caso i burocrati pubblici si chiamano "cuccagnoni". I socialdemocratici vengono còlti da Fortebraccio mentre raggiungono a piedi palazzo Chigi per iniziare una "verifica", la «numero 376 dopo Cristo». In compagnia di Mario Tanassi c'è Saragat che procede a rilento perché il suo compagno e gregario, facendo delle «fermatine da cocker, intende dimostrare che è ridiventato fedele». Forlani, «neghittoso e disutile», somiglia secondo Melloni «a una tanica vuota». Di Scalfaro lo colpisce «la frivolezza proverbiale»: al suo confronto «il vescovo Lefebvre pare Brigitte Bardot». In La Malfa ammira «l'illimitata capacità di straziarsi». Scorge Piccoli nei locali dell'«Alpen Bar, un posticino piacevole dove si gioca al biliardo con l'alpenstock». Nei raduni della Dc individua un signore «immobile ed eterno». È Taviani. La sera «gli inservienti lo coprono con un telo sagomato per ripararlo dalla polvere, al pari delle altre poltrone». Un ingrediente consueto del menù satirico è Spadolini, «l'anziano storico infantile», abituato a scrivere «in uno stile lapidariosussultorio che dava le convulsioni. Ora (1971) non lo fa più, sebbene non vada immune da ricadute. Domenica, per esempio, ha concluso il suo articolo con questa frase di due parole, perentoria e insensata: "Guardiamoci intorno". Professore, non ricominciamo, eh!». Fortebraccio a volte si domandava, fra le righe, se personaggi così sarebbero stati rimpianti, un giorno. Scherzava, non sospettando di essere un po' profeta.
Nello Ajello (La Repubblica, 23/01/2010)

Riferivano ieri i giornali che i ministri dell'Interno e della Giustizia, Restivo e Gava, hanno parlato in Senato martedì sulle repressioni. La tesi dell'on. Restivo è nota e l'abbiamo già commentata alcune settimane or sono: denunce di lavoratori o di studenti, in Italia, non ne esistono, o quasi. I pochi che languiscono in galera sono i padroni denunciati e le loro famiglie: così imparano. Il senatore Gava, dal canto suo, non ha mancato di levare un severo ammonimento nei confronti «di quei gruppi di pressione di qualsiasi natura e provenienza che, all'esterno o all'interno dell'ordine giudiziario, svolgono azioni massicce, tali da creare un ambiente di turbamento, di preoccupazione psicologica intorno ai magistrati che debbono giudicare il caso concreto». Dice in sostanza in Guardasigilli: «La magistratura è libera, ma i giudici, essendo uomini, non possono non avvertire e non subire, in qualche misura, l'influenza, sia pure soltanto psicologica, di ambienti, di climi, di atmosfere, che gli si creino intorno». Esattissima e acuta riflessione, alla luce della quale si spiega perché essendo ministro della Giustizia un Gava, alcuni giorni fa è stato messo dentro e condannato un manovale che si era costruito con le sue mani una casetta in periferia, e ieri una madre di quattro figli, a Terni, col marito disoccupato, è finita incarcerata perché, ignara, ha bruciato la credenza pignorata, per riscaldare in qualche modo la sua casa gelida. In entrambi i casi la legge, come tale, sarà ineccepibilmente applicata, non diciamo di no. Ma non c'è dubbio che questa severità nei confronti dei poveri si può anche spiegare col fatto che abbiamo un ministro della Giustizia nullatenente. Egli non parla, non muove un dito. Ma i giudici «sentono» che col suo avvento è finita la cuccagna dei privilegiati e che, Gava governando, ai miseri una buona galera non gliela deve negare nessuno. In compenso i ricchi non verranno toccati: ognuno sa che il senatore Gava preferisce che non ci si curi di loro, e difatti li abbiamo tutti qui, disprezzati e potenti. Così li punisce, ignorandoli, il ministro della Giustizia, implacabile.
Fortebraccio.     Da «l'Unità» del 29 gennaio 1970

altro