"Furore" fu pubblicato nel
1939 e divenne subito un caso. Anzi un simbolo del modo in cui un paese
voleva uscire dalla crisi.
Vinse il premio Pulitzer e fu probabilmente il testo sacro che contribuì
a fare del suo autore un eroe letterario.
Sognando la California
terra del latte e del miele
di IRENE BIGNARDI
Di solito dei grandi romanzi si ricorda l´incipit - a partire
da quello più celebre (forse) di tutti, "Chiamatemi
Ismaele", indimenticabile inizio di Moby Dick. Di Furore (Grapes
of Wrath, letteralmente l´uva dell´ira), il capolavoro
di John Steinbeck, è leggendario soprattutto il finale. Quando,
al termine della terribile, dolorosa, epica traversata dell´America
versa il mito di una sognata California dove tutto dovrebbe essere
facile e dove tutto è miserando e difficile, Rose of Sharon,
la giovane donna del clan degli Joad, che ha appena perso il suo
bambino neonato, offre il latte del suo seno a uno sconosciuto,
un poveraccio che sta - letteralmente, come tanti, come gli infiniti
poveri di questo libro e di queste storie vere - morendo di fame.
Tra il ritorno di Tom Joad a casa con un permesso speciale della
prigione dove ha scontato quattro anni dei sette che deve fare per
aver ucciso un uomo che lo ha accoltellato e, molto tempo e molte
sofferenze dopo, l´arrivo nella tragica California della Depressione
e il gesto da moderna pietà di Rose of Sharon, si snoda quello
che a molti e per molto tempo, salvo gli inevitabili revisionismi,
è sembrato il Grande Romanzo Americano - e che invece una
critica eternamente insoddisfatta continua ancora a cercare.
Furore fu pubblicato il 14 aprile del 1939, e divenne subito un
caso, un successo e un simbolo. Vinse il premio Pulitzer, e fu probabilmente
il testo sacro che contribuì a fare del suo autore un eroe
letterario e a fargli vincere nel 1962 il Premio Nobel. Bisogna
aggiungere che, in quel lontano 1939 e nell´anno successivo
fu il libro più venduto (chissà se si usava già
la parola bestseller, e se il senso della medesima si portava dietro
la stessa volgarità intellettuale). Che ne sono stati venduti
quattro milioni e mezzo di copie in edizione hardcover. Che se ne
vendono centomila ogni anno in tutto il mondo. Che è stato
tradotto praticamente in tutte le lingue esistenti, fino ad arrivare
alla cifra record di quattordici milioni di copie. E che nel 1940,
sceneggiato da Nunnally Johnson e interpretato in maniera indimenticabile
da Henry Fonda, è diventato uno dei grandi film di John Ford,
politicamente molto forte e impegnato - e vincitore di ben due Oscar.
Il tutto, a cementare il successo di Steinbeck su ogni fronte, mentre
Lewis Milestone si preparava a girare un film dal suo play-novelette,
Uomini e topi.
La storia di Furore, per chi non l´abbia mai letta o l´abbia
dimenticata, è l´epopea della biblica trasmigrazione
della famiglia Joad, assieme ad altre centinaia di poveracci, dall´Oklahoma
attraverso il Texas Pandhanle, il New Mexico e l´Arizona,
lungo le famosa Route 66 che conoscerà altre storie letterarie
(Kerouac, fra gli altri), fino alla California, «il paese
del latte e del miele», in cerca di un modo di vivere. Ci
troveranno solo il modo di sopravvivere: paghe da fame, padroni
terribili, lavori da schiavi. Sono gli anni della Grande Depressione,
e, se non vogliamo ricorrere a John Ford, possiamo immaginarci i
Joad con gli stessi volti dei disperati ritratti da Dorothea Lange
e da Walker Evans, cotti dal sole e dal vento della Dust Bowl -
come vennero soprannominate una volta per tutte, anche quando tornarono
alla quasi normalità, quelle zone, dopo le spaventose siccità
di quegli anni, che le aveva rese un deserto di polvere e di tempeste
di sabbia - , smagriti da un regime di lavoro che non bastava neanche
lontanamente a nutrirli, e non si dica a farli vivere.
Forse Furore adesso può a qualcuno sembrare un (grande) romanzo
di propaganda politica, un affresco di realismo americano improntato
a una visione manichea e sinistrorsa della realtà sociale.
Allora fu certamente uno choc. Osannato da una parte della critica
(mentre Malcolm Cowley su The New Republic scriveva prudentemente
che il romanzo apparteneva alla categoria «dei grandi libri
arrabbiati» come La capanna dello zio Tom che «sollevano
la gente a combattere contro ingiustizie intollerabili»),
visto da taluni come un «trionfo della narrativa proletaria»,
esaltato come un racconto biblico ispirato al reale, Furore fu attaccato
dall´altra parte con altrettanta passione. La sua denuncia
era troppo forte e fu guardato come un documento di propaganda politica,
non come il grande libro che era: scuole e biblioteche lo misero
al bando, uomini politici lo denunciarono pubblicamente, le grandi
corporations dell´agricoltura lo definirono "immorale,
degradante e falso", le istituzioni della chiesa protestante
lo attaccarono.
Attacchi che contribuirono a consolidare le insicurezze di Steinbeck.
Perché dietro questo grande, roccioso romanzo, c´è
la lunga e difficile storia del suo concepimento come la racconta
Steinbeck nel suo diario Working Days - che venne pubblicato in
concomitanza con il mezzo secolo del libro, nel 1989 - e come la
riassume il suo non tanto clemente biografo Jay Parini nella sua
biografia pubblicata nel 1994. E dietro l´uomo grande e bello
e severo e con l´aria patriarcalmente sicura c´è
un personaggio pieno di insicurezze, che non si immaginerebbero
dal suo successo, dalle sue certezze morali, dalla sua storia.
Working Days fa la storia di una gestazione difficile, di un genio
che non sapeva di esserlo e che troppo spesso era tentato, addirittura,
di distruggere il libro che sarebbe diventato il suo capolavoro,
e che non lo amava, e che si diceva, in tono negativo, che Furore
era "assolutamente il meglio che so fare". Se la stesura
del suo grande romanzo richiese a Steinbeck solo cinque mesi (anzi,
cento giorni di lavoro pieno, gli altri essendo "giorni dispersivi":
amici, distrazioni e pigrizia) il processo per cui si arrivò
al libro è stato molto più complesso. All´inizio
ci fu una serie di articoli scritti da Steinbeck per il San Francisco
News nel 1936. Poi nacque l´idea di un romanzo di grandi dimensioni,
il cui titolo sarebbe dovuto essere The Oklahomans. Il terzo passo
fu il progetto di una satira socio-politica, L´Affaire Lettuceberg,
che fu però abbandonato. Poi si arrivò a Furore. I
modelli a cui Steinbeck si ispirava erano i grandi della letteratura
civile, Hemingway, Faulkner, Thomas Wolfe, Dos Passos, Caldwell,
e Melville per quanto riguardava i capitoli introduttivi. L´atmosfera
e i tempi erano quelli della battaglia condotta dalla amministrazione
di Roosevelt per controllare e smorzare la situazione esplosiva
e prerivoluzionaria dei contadini impoveriti dalla crisi, dai ricatti
delle banche, dai disastri atmosferici. Ma nella composizione del
libro entra anche la presenza e l´amicizia di Tom Collins,
la "coscienza" di Furore, la persona che aveva aperto
e rivelato a Steinbeck il mondo del lavoro dei braccianti lavoratori
a giornata organizzati dalla Resettlement Administration (e Collins
fu anche colui che collaborò con Ford sul set del film come
"consulente tecnico").
"Senza Tom", scrisse Steinbeck, "non avrei potuto
cogliere tutti i particolari, e i particolari sono tutto",
come sa chi ha letto l´altro grande libro sui contadini poveri
di quegli anni, Sia lode ora a uomini di fama, di James Agee e Walker
Evans, la versione testimoniale e sociologica di Furore, che, come
Furore ma in forma di inchiesta, indaga la tragica condizione dei
contadini bianchi senza terra. Ma è vero anche che Steinbeck
Furore non l´avrebbe potuto scrivere senza Carol, sua moglie
(per tredici anni), che del romanzo seguì ogni riga, lo batté
a macchina, lo difese, lo sostenne. E a cui Furore è dedicato.
"A Carol, che ha voluto questo libro", con la sua passione,
la sua epica potenza, la sua sonorità biblica, la sua dolente
umanità.
Furore e il suo successo e le polemiche che seguirono rappresentarono
per Steinbeck una prova che lo lasciò stremato e diverso.
Non si accontentò più della piccola stanza in cui
gli piaceva e in cui era abituato a lavorare. Cambiò casa,
scelse residenze sempre più grandiose, ebbe una seconda moglie,
e poi una terza. I libri che scrisse erano, inutile dirlo, belli
- La valle dell´Eden, La luna è tramontata - ma meno
sanguigni e importanti (e anch´essi ebbero un destino cinematografico:
prima La luna è tramontata, del 1943, con la sua nobile storia
sulla resistenza norvegese contro il nazismo, nel 1955 La valle
dell´Eden con l´esordio di James Dean). C´era
stata Pearl Harbour, l´entrata in guerra degli Usa, una crisi
della sinistra che convertì molti al patriottismo e coinvolse
anche personalità come Welles e Chaplin. Fatto sta che, con
gli anni, la visione politica di John Steinbeck cominciò
ad appannarsi - tanto che l´ex uomo di sinistra, visto ormai
da qualcuno come un "falco", finì nel 1967 per
sostenere la guerra del Vietnam, dove si era recato in veste di
grande inviato giornalistico (le sue corrispondenze da Saigon sono
state raccolte in un libro edito da Leonardo, C´era una volta
la guerra): e per le sue posizioni, sorprendenti almeno per i suoi
più fedeli lettori, si giocò una parte della sua popolarità.
Lo scrittore laureato dal Nobel era sempre un grande, ma molto diverso
dal generoso, appassionato, estremo cantore dei diseredati Okies
di Furore.
(10 settembre 2002)