IL BISBETICO DOMATO  (Cantor e Dedekind)
da: P.Odifreddi, Le menzogne di Ulisse, Longanesi, Milano, 2004

In un tempo indefinito e indeterminato ventiquattro filosofi si riunirono a convegno e riuscirono a risolvere tutti i problemi che si posero, meno uno: che cos'è Dio? Si separarono per pensarci, e quando si ritrovarono confrontarono le loro risposte, che un anonimo dei dodicesimo secolo raccolse nel Libro dei ventiquattro filosofi, variamente attribuito dalla tradizione medievale a Ermes Trismegisto, Empedocle e Alain de Lille.

   La seconda delle risposte è un'immagine che percorre un buon tratto di storia del pensiero occidentale, da Cusano e Maestro Eckhart a Giordano Bruno e Pascal: «Dio è una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la superficie in nessun luogo». La diciottesima risposta precisa che « non può esservi all'estremo un punto che non abbia una sfera intorno»: il che significa che la sfera è sbucciata, nel senso che le è stata tolta la superficie. E la quattordicesima risposta aggiunge che Dio è «una sfera che nel suo interno imprigiona il nulla»: forse Dio è lo spazio vuoto, come suggerì Nicola di Oresme.

   Già Senofane e Parmenide avevano paragonato Dio a una sfera, alla quale Empedocle aveva aggiunto come attributo l'infinità: una bella immagine letteraria, testimonianza di un modo di filosofare attraverso la poesia che si esaurì appunto con Empedocle. Ma il concetto di infinito è precedente a tutti loro: risale ad Anassimandro, che nella prima metà del sesto secolo p.e.V. attribuì a ciò che lui chiamava arché, «principio», le proprietà dell'ápeiron, «illimitato», e dell'aóristos, «indefinito».

   Ancora una volta dunque, come già nel caso della verità, si trattava di concetti negativi: derivati l'uno da péras, «limite», e l'altro da hóros. «confine»(da cui si ottiene anche horìzon, «orizzonte»). Ma a differenza della verità, questa negatività venne recepita nella traduzione latina infinitum, «non finito», e nelle sue derivazioni: prima fra tutte quella linguistica del modo verbale «infinito», che è appunto da intendersi nei senso di «non determinato».

   Com'è appropriato per un concetto negativo, l'infinito venne considerato dai Greci un limite del pensiero, e non un pensiero del limite. Esso fu cioè accettato, nella terminologia di Aristotele, in senso «potenziale» e non «attuale». Ovvero, solo come possibilità sempre in divenire e mai completamente realizzata. O, meglio ancora, come un processo interminabile e non come un oggetto terminato o, appunto, finito.

   L'esempio archetipico lo fornirono gli irrazionali quali la radice di 2, che introdussero l'infinito potenziale nella matematica postpitagorica: mediante metodi di calcolo che i Greci scoprirono immediatamente, era infatti possibile trovarne approssimazioni razionali arbitrariamente buone, senza poter però mai arrivare a una ottima e definitiva. E da allora la nozione di approssimazione, di indefinito avvicinamento a una meta che non si poteva mai raggiungere, divenne centrale in matematica: ad esempio, negli Elementi Euclide non parlò mai di rette infinite, ma solo di segmenti estendibili a piacere.

   Gli scolastici applicarono all'infinito la loro distinzione fra categorémata e syncategorémata, chiamando «categorico» l'infinito attuale, e « concategorico» quello potenziale. Del secondo, Pietro Ispano diceva che era solo quantocunque finito maius, «maggiore di ciascun finito». Del primo, invece, che avrebbe dovuto essere maius quantocunque finito, «maggiore di ogni finito».

   E come al solito, poiché la scolastica si predicava in chiesa o nelle vicinanze, i discorsi sull'infinito finirono per scivolare su Dio. Ad esempio, come si conciliava l'onnipotenza divina con l'impossibilità dell'infinito attuale o categorico? Più precisamente, se Dio era veramente onnipotente, perché mai non avrebbe potuto creare una pietra infinita?

   Tommaso d'Aquino se la cavò rispondendo che onnipotente è chi può fare tutto ciò che è possibile, ma neppure Dio può fare l'impossibile: altrimenti, facendolo, dimostrerebbe che è possibile. Gregorio da Rimini sostenne invece che Dio poteva creare una pietra infinita in una sola ora, alla maniera di Zenone: bastava che ne facesse un chilo in mezz'ora, un altro chilo in un quarto d'ora, e così via. Buridano non fu convinto: secondo lui l'argomento mostrava che si potevano creare pietre di grandezza illimitata in meno di un'ora, ma non che si potesse completare l'opera e crearne una infinita.

   Il primo vero progresso nella storia dell'infinito attuale o categorico lo fece nel tredicesimo secolo Duns Scoto, il Dottor Sottile che introdusse per sbaglio un modo di ragionare che solo dopo secoli sarebbe stato riconosciuto corretto. Il suo obiettivo era sostenere la tesi che le circonferenze non possono essere costituite di punti, e lo fece dimostrando che altrimenti tutte le circonferenze ne avrebbero lo stesso numero: cosa apparentemente assurda, perché punti aventi le stesse dimensioni e nella stessa quantità dovrebbero produrre circonferenze della stessa lunghezza.

   La dimostrazione consisteva, anzitutto, nel muovere due circonferenze qualunque una sull'altra, in modo da farle diventare concentriche. E poi nel notare che il raggio, girando, mette in «corrispondenza biunivoca» ciascun punto di una circonferenza con uno e un solo punto dell'altra, e viceversa.

   Qualche secolo e molti anni dopo, nel 1638, Galileo osservò che il ragionamento di Scoto non produceva nessun assurdo: punti aventi le stesse dimensioni e nella stessa quantità possono costituire circonferenze «minori della luce dell'occhio di una pulce, o maggiori dell'equinoziale del primo mobile», perché basta che essi si stringano o si allarghino fra loro secondo il bisogno. Un'osservazione, questa, che oggi ci appare francamente ridicola.

   Da parte sua, Galileo trovò poi un analogo aritmetico dei paradosso geometrico di Scoto. Questa volta, erano due qualunque insiemi infiniti di interi ad avere lo stesso numero di elementi, invece che due circonferenze. Ad esempio, ci sono tanti numeri pari quanti numeri interi, perché ogni numero ha un unico doppio, e ogni numero pari ha un'unica metà. Oppure, ci sono tanti quadrati quanti interi, perché ogni intero ha un unico quadrato, e ogni quadrato un'unica radice intera.

   L'osservazione di Galileo è banale da un punto di vista matematico, e vale non soltanto per i pari o per i quadrati, ma per qualunque insieme infinito di interi: enumerandolo, si ottiene una corrispondenza biunivoca con l'insieme di tutti gli interi. Ma proprio qui sta l'interesse filosofico: nei fatto, cioè, che in un insieme infinito come quello degli interi cessano di valere proprietà apparentemente evidenti come «la parte è minore del tutto», o «il tutto è maggiore della parte».

   Al loro primo apparire queste osservazioni furono dunque accolte come nuovi paradossi dell'infinito, da aggiungersi a quelli di Zenone come ottime ragioni per continuare a rimuoverlo dalla pratica filosofica e matematica. Anche se, a onor del vero, Galileo intravide che il problema stava altrove, in ciò che Kant avrebbe chiamato « un'illusione naturale della ragione »: la pretesa, cioè, di voler applicare all'infinito le stesse proprietà del finito.

   In ogni caso, a prima vista sembrava che nell'aritmetica dell'infinito tutto si mescolasse in un unico calderone, e il matematico John Wallis propose dunque nel 1655 di usare un unico simbolo per indicano: il famoso ∞, che egli introdusse semplicemente con un esto oc nota numeri infiniti, «questo ∞ denota i numeri infiniti», e ottenne (sembra) completando una ω, l'ultima lettera dell'alfabeto greco, che si trovava appunto «in fine».

   Ma, come si sa, una volta introdotti, i simboli acquistano vita propria. Come otto rovesciato l'∞ ne ereditò i caratteri di passaggio dal finito all'infinito, perché l'ottagono si situa a metà tra ii quadrato e il cerchio. Come doppio cerchio fu considerato un raddoppiamento dell'ouroborus, il serpente circolare alchemico che «si mangia la coda». Come lemniscata descrisse una curva che prese il nome da lemniskos, «nastro» o «benda», e della quale Jacob Bernoulli trovò nel 1694 l'equazione matematica. Come nastro o banda di Möibius rappresentò nel 1863 una superficie a una sola faccia e un solo bordo, ottenuta torcendo un rettangolo di mezzo giro e incollandone i lati corti. E, naturalmente, come simbolo dell'infinito divenne il soggetto di proprietà paradossali, quali

   ∞+l = ∞ + ∞ = ∞ e ∞-l = ∞ – ∞ = ∞

   Un primo tentativo di distinguere tra infiniti diversi lo fece Giordano Bruno nel 1584, effettuando ne La cena delle ceneri il seguente esperimento mentale. Quando noi ci allontaniamo dalla Terra in verticale, l'orizzonte si allarga e il nostro sguardo abbraccia parti sempre maggiori del globo. Giunti all'infinito, potremmo in teoria vederne metà: d'altronde, già dalla Terra vediamo circa metà della Luna. Ma Bruno procedette nel suo viaggio immaginario e immaginò che andando «oltre l'infinito» potremmo cominciare a vedere anche l'altra metà nascosta, fino ad abbracciare tutta la Terra o la Luna, una volta giunti all'infinito per una seconda volta.

   Nello stesso anno, nel De l'infinito universo et mondi, Bruno ripropose i due tipi di infinito in un'altra versione: l'universo e Dio. Il primo sarebbe «tutto infinito» perché si compone di parti limitate. li secondo sarebbe invece «totalmente infinito» perché ogni sua parte è infinita quanto il tutto. In termini matematici, la stessa distinzione si ritrova fra gli interi e i razionali, essendo i primi distribuiti discretamente e i secondi in maniera continua: Bruno dunque supponeva, com'era ragionevole, che l'infinito dei razionali fosse maggiore di quello degli interi.

   Purtroppo, o per fortuna, nel 1816 il geologo John Farey confutò questa ragionevole supposizione, mostrando che anche i numeri razionali si possono enumerare, e mettere in corrispondenza biunivoca con gli interi. Basta semplicemente ordinarli in base alla somma di numeratore e denominatore, ad esempio nel modo seguente:

   1/1, 1/2,2/1, 1/3,2/2,3/1, 1/4,2/3,3/2,4/1, ...

   Nell'infinito, dunque, non si annulla semplicemente la differenza fra la parte e il tutto, ma anche fra il discreto e il continuo. E poiché i razionali sono in un certo senso una versione bidimensionale degli interi, in cui ogni frazione corrisponde a una coppia costituita da numeratore e denominatore, nell'infinito si annulla anche la differenza tra l'unidimensionale e il bidimensionale. E non sopravvive nemmeno la differenza tra positivo e negativo, perché è ancora più facile enumerare i numeri relativi, semplicemente alternando quelli di segno contrario:

   0, 1, -1, 2,-2, 3,-3, ...

   Tutto sembrava dunque confermare l'unicità dell'infinito, ma mancavano ancora all'appello i numeri reali. Anzi, non esistevano neppure, perché nessuno era riuscito a definirli in maniera sensata, dopo la scoperta degli irrazionali. Il primo che ci riuscì fu Richard Dedekind, uno scapolone dedito soltanto alla matematica, che per tutta la vita visse con una sorella rimasta nubile. E fu il 24 novembre 1858, secondo le sue memorie, che egli ebbe l'intuizione giusta, anche se la pubblicò soltanto nei 1872.

   Osservando la pratica in voga fin dai tempi di Eudosso, Dedekind notò che degli irrazionali non si usavano mai al tro che le loro approssimazioni razionali: doveva dunque essere possibile ricondurre i primi alle seconde. In altre parole, doveva essere possibile identificare un numero irrazionale soltanto in base all'effetto che esso ha sui numeri razionali: che, ad esempio, nel caso della radice di 2, è di separare i razionali che hanno quadrato minore di 2 da quelli il cui quadrato è maggiore di 2.

   Poiché la separazione dei razionali è l'effetto visibile di una causa invisibile, Dedekind decise di identificare la causa con i suoi effetti, e di dire non che la radice di 2 causa, ma che è quella separazione dei numeri razionali. In questo modo i numeri irrazionali vengono «decostruiti» e ridotti alle possibili separazioni, che Dedekind chiamava «sezioni», dei numeri razionali. E poiché i numeri razionali sono a loro volta riducibili a rapporti fra numeri interi, il matematico Leopold Kronecker poté decretare: «I numeri naturali sono opera di Dio, il resto è opera dell'uomo».

   Naturalmente, anche ogni numero razionale causa una sezione dei numeri razionali: da una parte quelli minori o uguali, dall'altra quelli maggiori; o da una parte quelli minori, e dall'altra quelli maggiori o uguali. Ma ci sono sezioni che non sono causate da numeri razionali: volendo, se fa piacere, si può dire che esse sono causate da «buchi», che corrispondono appunto ai numeri irrazionali, come la radice di 2. I numeri irrazionali hanno dunque lo stesso tipo di esistenza dei buchi: cioè, nessuno, benché essi servano a individuare separazioni fra le cose che esistono.

   Nel 1872, lo stesso anno in cui Dedekind pubblicò la sua definizione dei numeri reali come sezioni dei numeri razionali, Georg Cantor ne propose una alternativa, ma equivalente: come successioni convergenti di numeri razionali, nel senso che la distanza fra termini consecutivi diventa sempre più piccola. Alcune di queste successioni «convergono» a un numero razionale, e altre no, e queste ultime corrispondono ai numeri irrazionali.

   Questa volta, invece di identificare le cause con gli effetti, si tratta di identificare le mete con i percorsi che portano da qualche parte. Così fanno i veri viaggiatori, per i quali andare è più importante che arrivare: anche se in matematica due percorsi che portano a una stessa meta sono equivalenti fra loro, e nel viaggio no. In ogni caso, con le sezioni o le successioni convergenti si possono definire i numeri reali in maniera precisa, e metterli in corrispondenza biunivoca con i punti della retta, ripristinando il legame fra aritmetica e geometria che era stato sciolto dalla scoperta degli irrazionali.

   A questo punto ci si può chiedere se i numeri reali siano anch'essi tanti quanti i razionali e gli interi, o se invece si sia ottenuto qualcosa di sostanzialmente più «numeroso». Cantor se lo chiese, e il 7 dicembre 1873 diede una risposta sorprendente, che cambiò la storia della matematica: non c'è modo di mettere in corrispondenza biunivoca i numeri reali con i numeri interi, perché qualunque enumerazione ne lascia sempre fuori qualcuno.

   La dimostrazione è di una semplicità diabolica. La si può vedere in azione nella prova che, se si intendono con «parole» le sequenze arbitrarie di lettere di un alfabeto finito, non è possibile enumerare le parole di lunghezza infinita, mentre è naturalmente possibile enumerare quelle di lunghezza finita: ad esempio, mettendo prima le più corte, e ordinando quelle della stessa lunghezza in ordine alfabetico.

   Cantor scoprì, semplicemente, che nessun dizionario per le parole infinite può essere completo. Esso non contiene, infatti, almeno una parola: quella che si scrive iniziando con una qualunque lettera che sia diversa dalla prima lettera della prima parola, proseguendo con una qualunque lettera che sia diversa dalla seconda lettera della seconda parola, e così via. La nuova parola non può essere la prima del dizionario, perché le loro prime lettere sono diverse; non può essere la seconda, perché le loro seconde lettere sono diverse. e così via.

   Si potrebbe obiettare, a ragione, che in un linguaggio non ogni sequenza di lettere forma una parola sensata. Ma in matematica, diversamente dal linguaggio, ogni sequenza di cifre forma invece uno sviluppo decimale sensato: l'argomento di Cantor mostra dunque, ad esempio, che non si possono enumerare gli sviluppi decimali dei numeri fra 0 e 1 , che iniziano tutti con «0.». In altre parole, già i numeri fra 0 e 1 non si possono mettere in corrispondenza biunivoca con gli interi: figuriamoci tutti i numeri reali, senza limiti.

   Questo metodo di dimostrazione si chiama oggi «diagonale», perché considera le lettere sulla diagonale di un'ideale disposizione delle parole su una scacchiera doppiamente infinita: verso destra, perché si considerano parole infinite; e verso il basso; perché si considerano infinite parole. Ma la prima applicazione del metodo è antica, e risale almeno ad Archimede, che nel 220 p.e.V. decise di calcolare nell'Arenario il numero di granelli di sabbia necessari a riempire l'universo.

   Il problema era come chiamare questo numero, visto che il massimo nome che i Greci avevano era la « miriade », cioè 10 mila, che derivava da myríos, «innumerevole», e ovviamente non bastava. E poiché non sarebbe stato pratico ripetere «miriade di miriadi di miriadi ...» il numero di volte sufficiente, Archimede introdusse «ordini» e «periodi» di iterazione, arrivando così fino a un «numero diagonale» che chiamò «una miriade di miriadi del miriade-miriadesimo ordine del miriade-miriadesimo periodo», paria circa 101017 della nostra notazione odierna.

   Per curiosità, la valutazione dei granelli di sabbia alla quale Archimede arrivò, in base alle sue stime sulla grandezza dell'universo, fu 1063. Sorprendentemente, non sono molti di più gli elettroni che l'universo può contenere, in base alle nostre stime attuali: «soltanto» 10207, un numero che rientra più che agevolmente tra quelli per i quali Archimede inventò un nome.

   Per tornare a Cantor, a questo punto egli decise di dire che due insiemi hanno lo stesso numero di elementi, se si possono mettere in corrispondenza biunivoca. E che un insieme ha un numero minore di elementi di un altro, se il primo si può mettere in corrispondenza biunivoca con una parte del secondo, ma non con il tutto. I risultati precedenti si possono allora riformulare dicendo che il numero degli interi è lo stesso di quello dei razionali, ma è minore di quello dei reali.

   L'intuizione di Giordano Bruno era dunque corretta: l'infinito non è uno solo, e ce ne sono almeno due tipi. Nel 1891 poi, sfruttando al meglio l'argomento diagonale, Cantor dimostrò addirittura che di infiniti ce ne sono infiniti, nel senso che dato uno se ne trova sempre un altro maggiore. La cosa insospettì immediatamente la Curia romana, abituata a identificare l'infinito con Dio: con più infiniti, infatti, il monoteismo rischiava di andare a farsi benedire!

   Naturalmente, col precedente dei rogo di Giordano Bruno a Campo de' Fiori, le preoccupazioni della Chiesa non andavano sottovalutate, anche se i tempi erano cambiati. Cantor, che era cristiano battezzato, visitò in Vaticano il cardinale Franzelin, prefetto dei Santo Uffizio, e gli spiegò che gli infiniti di cui si parlava in matematica erano tutti relativi: lui li indicava con degli ω minuscoli, per distinguerli dall'Ω maiuscolo dell'infinito assoluto. Il quale, naturalmente, non esisteva: altrimenti, se ne sarebbe dovuto trovare un altro ancora maggiore.

   Ma le contraddizioni spaventano solo i matematici e le persone razionali, non certo i cardinali e i credenti. Franzelin diede dunque l'imprimatur alla nuova teoria, a condizione che i nuovi numeri definiti da Cantor venissero chiamati transfiniti, «oltre il finito», e non infiniti: un aggettivo, questo. che andava appunto riservato a W e a Dio, che comunque per i matematici non esisteva. La cosa non attecchì, però, e oggi l'aggettivo è rimasto immutato, mentre per colmo dell'ironia è cambiato il sostantivo: i numeri introdotti da Cantor si chiamano, infatti, con buona pace dei Vaticano, «cardinali» (da cardine, «perno» o «sostegno»).

   Quanto al fedele Cantor, per tutta la vita rimase ossessionato da un problema: dal punto di vista dell'infinito, c'è qualcosa di mezzo tra gli interi e i reali? Ovvero, c'è qualche insieme infinito di numeri reali che non si possa mettere in corrispondenza biunivoca né con gli interi, né con i reali? La risposta negativa prese il nome di ipotesi dei continuo, e vedremo in seguito quale ne fu la sorprendente soluzione.

   I tentativi di dimostrarla o di refutarla, a seconda del momento, portarono però Cantor alla pazzia. Egli finì per entrare e uscire dagli ospedali psichiatrici, e dopo una di queste visite scrisse Ex Oriente Lux, «La Luce dall'Oriente», un pamphlet in cui cercava di provare che Gesù Cristo era figlio naturale di Giuseppe d'Arimatea. Questa non era, comunque, la sua sola idea balzana: un'altra alla quale dedicò molto tempo e varie pubblicazioni fu la teoria che era stato Bacone a scrivere le opere di Shakespeare, come se questo avesse qualche importanza.

   Ne ha invece, e molta, la teoria dell'infinito che Cantor regalò alla matematica. Tanto che, quand'essa fu fatta vacillare dai paradossi dei quali ci occuperemo tra poco, il grande David Hilbert esclamò memorabilmente: «Nessuno ci scaccerà dal Paradiso che Cantor ha creato per noi».