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Estratto da:
F.Furinghetti (a cura di), Atti del 2° internucleo scuola secondaria superiore, Progetto T.I.D.-Formazione e aggiornamento in matematica degli insegnanti, quaderno 13, 1992

La problematica del definire e del dimostrare nella costruzione di un progetto per l'insegnamento della matematica

Carlo Dapueto - Dipartimento di Matematica dell'Università di Genova

1.    Premessa
2.    Un'analogia tra le scienze sperimentali ...
3.    ... e la matematica.
4.    Obiettivi e scelte didattiche
5.    Sulla definizione (introduzione, delimitazione, ...) dei concetti
6.    Sulla dimostrazione (argomentazione, ...)
7.    Questioni collegate (linguaggio, logica, calcolatore)
8.    Conclusioni

 

1. Premessa

1.1.    Questo contributo (che dà forma scritta alla relazione orale svolta al II Internuclei Scuola Secondaria Superiore - Genova, 1991) non è una riflessione astratta sul problema delle definizioni e delle dimostrazioni, ma, nello spirito di quello che è un internuclei, assume come punto di vista questioni legate alle scelte didattiche che stiamo affrontando nel nucleo di ricerca didattica MaCoSa.

1.2.    Il nostro nucleo di ricerca didattica (MaCoSa, acronimo per "matematica per conoscere e per sapere") si è formato l'anno scorso e ha avuto come prima attività finalizzata di ricerca e sperimentazione la conduzione di un corso di aggiornamento per insegnanti di matematica della scuola secondaria superiore su "Calcolatore e insegnamento della matematica" (vedi [8]).
    Le difficoltà incontrate da molti dei partecipanti al corso (complessivamente una cinquantina di insegnanti, quasi tutti già aggiornati nell'ambito del Piano Nazionale Informatica (PNI)) e le discussioni svolte durante le lezioni hanno messo in luce le carenze che, mediamente, hanno avuto le attività di aggiornamento del PNI, non solo dal punto di vista "tecnico" e da quello dei collegamenti tra calcolatore e insegnamento della matematica, ma, soprattutto, nei confronti del complesso delle innovazioni culturali e didattiche che i nuovi programmi (NP) connessi al PNI e poi rielaborati dalla Commissione Brocca, pur nei loro limiti, hanno introdotto.
    Questa constatazione e la richiesta di itinerari didattici e materiali per il lavoro in classe che ci sono state fatte dai partecipanti al corso nelle riunioni finali di bilancio ci hanno orientato alla scelta di avviare, a partire dal 1991/92, la costruzione e sperimentazione di un progetto per l'insegnamento della matematica nella scuola secondaria superiore.

1.3.    Perché questa scelta?
    Affrontare uno o più temi matematici isolatamente non ci è sembrata una scelta adeguata alle difficoltà che sta incontrando l'attuazione dei NP. Ciò per vari motivi.

(1)    Alle origini di queste difficoltà c'è il fatto che molti insegnanti leggono i NP solo come programmi che aggiungono temi nuovi a temi già presenti nei vecchi programmi. Per combattere la tendenza a trascurare i temi nuovi («tutto non si può fare; lasciamo da parte i temi nuovi, difficili per noi e per gli alunni, e che pochi di noi hanno studiato all'università») e, soprattutto, a non cogliere i cambiamenti che dovrebbero investire i temi vecchi, ci è sembrato che sia necessario mettere in luce la necessità di un'attività di programmazione che disarticoli e riaggreghi i temi elencati nei programmi in itinerari didattici che colgano le interazioni tra i vari temi, le reciproche motivazioni e occasioni di esercizio e consolidamento tecnico (nel fare probabilità si fa anche algebra, l'uso delle coordinate comporta attività con le equazioni e offre possibilità per introduzioni alternative e più efficaci di molti concetti geometrici, l'uso della nozione di funzione permette di semplificare e raccordare vari concetti, ... per non parlare delle possibilità che offre l'uso dei mezzi di calcolo).

(2)    I temi nuovi creano problemi anche perché di per sé comportano un insegnamento meno "tradizionale". Ciò non solo in quanto per vari di essi si è in assenza di itinerari didattici "tramandati" o "ereditati" da riprodurre o seguire fiduciosi ma, soprattutto, in quanto il loro sviluppo necessariamente deve passare attraverso delle attività di matematizzazione (ogni problema probabilistico comporta la modellizzazione di un fenomeno casuale, mettere a punto un programma di tipo matematico comporta spesso la schematizzazione in un modello matematico di una situazione problematica e, in ogni caso, la precisazione sotto forma di algoritmo di qualche procedimento e la sua traduzione in un linguaggio formale, ...).

(3)    La natura della matematica e dei suoi modelli (ruolo delle definizioni e delle argomentazioni in matematica, caratteristiche dei modelli matematici rispetto ai modelli organizzati nelle altre discipline, organizzazione interna della disciplina, ...) sono comprensibili gradualmente attraverso la costruzione di una rete complessa di riferimenti culturali ed esperienziali.

    Per questi motivi abbiamo ritenuto opportuno tentare la strada di riorganizzare temi e metodi matematici, e di riflettere sui problemi del loro insegnamento, all'interno di itinerari didattici di più ampio respiro conoscitivo, dando rilievo sia al momento della matematizzazione che a quello della discussione dei limiti dei modelli matematici e a quello della analisi e messa a punto di collegamenti, descrizioni, ragionamenti, ... di tipo interno alla matematica.

1.4.    Siamo all'inizio di questo lavoro, e ci siamo subito resi conto che è faticoso e non facile, sia al livello della progettazione a grandi linee che a quello più "fine" (preparazione delle tracce di lavoro, del materiale, ...), anche per le differenze di esperienze, punti di vista, stili didattici delle persone che si sono aggregate nel nucleo. Il nome MaCoSa del resto era stato scelto anche perché, obliquamente, rifletteva lo stato secondo noi ancora molto problematico dell'insegnamento della matematica nella scuola secondaria superiore («ma cosa fare?»). Anche lo scadimento del livello dei nuovi programmi per le superiori rispetto a quello dei programmi della scuola media e della scuola elementare ci sembra sintomatico al riguardo (sui nuovi programmi abbiamo avviato una riflessione critica in collaborazione con il nucleo coordinato da F.Furinghetti; vedi [7]).
    Questo mio contributo non presenterà, quindi, indicazioni didattiche precise o esempi di attività, ma cercherà di mettere a fuoco o, almeno, delineare i problemi che ci proponiamo di affrontare nel nostro lavoro per chiarirci le questioni di come definire i concetti e come sviluppare le argomentazioni.
 

2. UN'ANALOGIA TRA LE SCIENZE SPERIMENTALI

2.1.    Le difficoltà maggiori a rinnovare l'insegnamento, in base alla nostra esperienza, ci sembra siano presenti soprattutto presso i licei scientifici. Dietro a ciò, a parte il problema dell'esame di maturità (che in buona parte è un "alibi": per affrontare la prova scritta di matematica, per quanto brutta possa essere, non è necessario tutto l'armamentario calcolistico e "procedurale" - una tecnica per ogni tipo di calcolo o di problema - su cui vengono esercitati per 5 anni gli alunni), mi pare sia presente una concezione distorta della natura della matematica e delle finalità del suo insegnamento in una scuola a indirizzo scientifico.
    Alcuni aspetti sono legati più strettamente a una certa confusione di idee sulla natura delle definizioni, delle dimostrazioni e degli assiomi. Altri aspetti sono di tipo più generale, e mi sembra efficace delinearli attraverso un'analogia con l'insegnamento delle scienze sperimentali. Riflettere criticamente su un'altra disciplina è più facile: il "distacco" può consentire di affrontare un'analisi più generale e meno "perturbata"; la parallela o successiva scoperta di analogie con la propria disciplina permette a ciascuno di riferirsi autonomamente a concetti e situazioni per lui significative.

2.2.    Non si tratta di una riflessione contingente, ma fa riferimento ad attività di ricerca e sperimentazione didattica sull'insegnamento delle scienze sperimentali nella scuola dell'obbligo a cui ho collaborato in anni passati. Riprenderò in particolare (in 2.3-2.8) alcune considerazioni svolte una decina d'anni fa, ma che non mi sembrano datate, in un convegno sull'insegnamento delle scienze sperimentali (cfr. [4]), in un periodo in cui era di moda l'idea di potenziare l'insegnamento secondo "il" metodo sperimentale (moda che il pasticcio del laboratorio fisico-chimico dei NP rischia di rialimentare) o, più in generale, "il" metodo della ricerca (certe proposte di insegnamento basate sul "problem solving" o sul "top-down" non sono forse degli aggiornamenti di quelle mode? su ciò ritorneremo).
    Queste considerazioni sull'insegnamento delle scienze sperimentali, oltre a suggerire, a mo' di metafora, alcune riflessioni sull'insegnamento della matematica, possono offrire anche qualche punto di riferimento per la gestione dei rapporti tra questo e l'insegnamento della fisica.

2.3.    Sulla formazione dei concetti e delle conoscenze.
    E` vero che i ragazzi apprendono sempre con "scoperte", con "ricerche", "sperimentalmente", ... ? Molte cose i bambini (e gli adulti) non le imparano forse solo facendo e/o imitando (in un contesto sociale che li stimola e li orienta)? Come gli alunni si formano i concetti o, meglio, rappresentazioni concettualmente articolate del mondo reale? come le sistemazioni del reale che propone la scuola interagiscono con quelle che l'alunno si è fatto o si sta facendo? Abbiamo dei modelli interpretativi adeguati sui modi in cui si realizzano, nei ragazzi e negli adulti, la "conoscenza pratica" e la "conoscenza linguistica", di come interagiscono le capacità operative e le capacità di riflettere sulle cose che si devono o si sanno fare? Il cosiddetto metodo sperimentale come interfaccia con questi processi di apprendimento?

2.4.    Sul fine dell'insegnamento scientifico.
    Specie nella scuola dell'obbligo, è quello di formare dei "piccoli scienziati"? Dobbiamo far sì che gli alunni imparino col metodo sperimentale o imparino che cos'è il metodo sperimentale, cioè il metodo sperimentale deve essere un metodo di studio o un oggetto di studio? Poi, solo con le cosiddette ricerche sperimentali si possono sviluppare abilità e metodi di ragionamento di tipo: osservativo, analogico, induttivo, deduttivo, esplorativo, operativo, capacità di interpretare i rapporti tra "modelli matematici o "modelli materiali" (da laboratorio, per intenderci) e realtà, abilità nel distinguere e scegliere variabili dipendenti, indipendenti e costanti, abilità manuali, abilità di misurazione, ... Oppure vi sono molte altre attività conoscitive in cui tutte queste abilità si esercitano e si sviluppano in modo naturale?

2.5.    Che cos'è poi il metodo sperimentale?
    Prima di affrontare l'eventuale esperimento c'è tutta la fase di formulazione e inquadramento del problema scientifico, che non parte da zero o da una pura attività osservativa, ma parte da un già (relativamente) elevato livello di elaborazione tecnica (e linguistica); è all'interno di questa sistemazione teorica, e nei rapporti tra ambiti teorici, tecnologici e sociali, che nascono le tensioni che portano alla formulazione del problema scientifico da indagare. In altre parole, il metodo sperimentale è basato sull'esperimento o su un diverso atteggiamento nei confronti del reale di cui fa parte l'esperimento? Come tener conto di ciò nell'insegnamento delle scienze sperimentali?

2.6.    Non esiste un univoco procedimento di indagine.
    E, in particolare, il ruolo dell'esperimento è diverso in un'attività di ricerca volta al chiarimento e approfondimento di problemi già noti e in una che mira soprattutto a individuare nuovi problemi; in un settore a prevalenza sperimentale (biochimica) e in uno in cui ha un grosso rilievo l'elaborazione teorica (cosmologia). L'esperimento può servire per confutare o limitare il valore conoscitivo di una teoria e/o per convalidare nuove ipotesi, o per ottenere ulteriori informazioni che suggeriscano nuovi modelli interpretativi di un fenomeno, ovvero per ricavare il valore numerico di una costante,...; in astronomia non si può parlare di "esperimento" se per esperimento si considera la riproduzione di un fenomeno in condizioni controllate, però nessuno negherebbe il valore "sperimentale" di tale scienza; .... Poi vi sono gli "esperimenti ideali", immaginati (si pensi a Galileo-Salviati, a Einstein, ...), e le osservazioni e riflessioni su fenomeni della vita quotidiana, che hanno avuto entrambi un ruolo fondamentale nello sviluppo della scienza, soprattutto della fisica. Insomma, il "metodo induttivo" (analisi dei dati, ...) è solo una astrazione di qualche filosofo della scienza, così come del resto lo sono le interpretazioni alternative dello sviluppo della scienza, altrettanto "assolute", fatte da altri "filosofi".

2.7.    Del resto, la formazione e la trasmissione delle "conoscenze scientifiche" avviene sempre attraverso "ricerche"?
    Si possono fare molti esempi di conoscenze che si sono formate per caso o per combinazioni felici di intuizioni e osservazioni, o che sono il frutto di un accumulo di esperienze e di modi di interpretare la realtà, e che si trasmettono attraverso l'imitazione di chi "sa" e "fa". Anche oggi (in vari campi tecnici, sociali, ...) è rilevante il ruolo delle conoscenze ottenute e trasmesse al di fuori del contesto della ricerca.

2.8.    La consapevolezza sulla natura e il ruolo (limiti e potenzialità) della scienza la si crea col metodo sperimentale (o, più in generale, col "metodo della ricerca")?
    Quanto peso nell'insegnamento devono invece avere la riflessione storica, le attività di modellizzazione e la discussione dei limiti dei modelli messi a punto, l'analisi di esempi di congetture (formulate sulla base di dati sperimentali) che hanno interpretato la presenza di correlazioni come rapporti di causa-effetto, la messa in discussione di modelli disciplinari utilizzati in modo scorretto, ...?
    E, poi, come non limitarsi alla scoperta della "legge" di un singolo fenomeno? Cioè come mettere in luce le differenze tra, ad esempio, la costruzione di un modello matematico di un fenomeno e l'inquadramento di questo modello in una specifica area scientifica? Dal punto di vista della matematica ci si può accontentare che il modello matematico di un certo fenomeno abbia conferme sperimentali (ad es. la relazione quadratica tra velocità e spazio di frenata), dal punto di vista della fisica o della chimica o ... occorre porsi la domanda «ma c'è una ragione più profonda?» (collegare la relazione di cui sopra alle leggi della dinamica).
    Inoltre, un risultato scientifico, una volta che è stato raggiunto, non diventa direttamente parte integrante e stabile delle "conoscenze scientifiche": si pensi a tutti i vari controlli e selezioni che esso subisce, dipendenti da svariati fattori: interesse incontrato presso gli altri scienziati, applicabilità in contesti produttivi, ortodossia rispetto ai canoni e alle idee prevalenti, motivi ideologici, rapporti di potere, ... . Vi sono vari esempi (in astronomia, fisica, biologia, ... e anche in matematica) di tecniche, concetti, teorie, ... che sono state accettate, riscoperte o diventate oggetto di studio e di ricerca molti anni dopo la loro formulazione.
 

3. ... E LA MATEMATICA

3.1.    I punti 2.3 e 2.4 richiamano anche per la matematica il problema dei rapporti tra sistemazione delle conoscenze disciplinari, processi di apprendimento e finalità dell'insegnamento:
–    le conoscenze matematiche (concetti, proprietà, ...) come si formano, come vengono organizzate mentalmente?
–    le definizioni e le dimostrazioni formalizzate come interagiscono con la formazione dei concetti e la comprensione/il convincimento di una proprietà?
–    è attraverso di esse che deve essere articolato l'insegnamento della matematica o esse devono essere soprattutto oggetto di studio?
–    è solo attraverso definizioni formali e dimostrazioni di teoremi che si sviluppano la padronanza del linguaggio matematico, le competenze nella "organizzazione" e "razionalizzazione" delle descrizioni e delle argomentazioni, ...?
–    definizioni e dimostrazioni non sono, per altro, presenti anche in attività (impostazione e passi risolutivi di un'equazione, risoluzione di un problema di geometria analitica, studio di una funzione, ...) di cui la standardizzazione in procedimenti meccanici fa perdere le valenze teoriche?

3.2.    I punti 2.5 e 2.6 stimolano a riflettere sui modi in cui è organizzata e si sviluppa la matematica:
–    prima di arrivare a una dimostrazione c'è un grosso lavoro per individuare la "proprietà" da dimostrare, convincersi della sua plausibilità, ...; e l'intuizione o l'interesse verso questa "proprietà" spesso non nascono neanche all'interno dello specifico settore di appartenenza ma sono influenzati da altri settori matematici (analogie, ricerca di collegamenti, ...) o da esigenze o suggestioni provenienti da ambiti applicativi;
–    vi sono vari "tipi" di dimostrazione e di definizione (anche per la stessa proprietà, per lo stesso concetto): più o meno formali, più o meno costruttivi, in ambienti "logici" più o meno estesi (per un esempio semplice si pensi alla diversità tra gli assiomi di campo ordinato, che richiedono solo la quantificazione di elementi - per ogni x, esiste x, ...-, cioè sono formulabili in un linguaggio del 1° ordine, e l'assioma di completezza, che richiede la quantificazione di insiemi o di proprietà - per ogni insieme ... -, cioè necessita di un linguaggio del 2° ordine), ...
–    se ci mettiamo a riflettere sulla "matematica dei matematici", da questi problemi sorgono nuovi quesiti: se vi sono vari "tipi" di dimostrazione e di definizione, qual è il valore delle conoscenze matematiche? le dimostrazioni sono o no un canale per la trasmissione della "verità"? ma che cos'è la verità? e come vengono scelte le cose (assiomi, definizioni, ...) da mettere all'inizio del canale? la scelta delle definizioni è indipendente o no dai metodi dimostrativi che si vogliono impiegare? ...

3.3.    Infine i punti 2.7 e 2.8 suggeriscono alcune questioni di fondo sulla natura della matematica, assai rilevanti dal punto di vista didattico:

–    innanzi tutto alcune considerazioni "storiche": # nella storia dell'umanità la scoperta e la trasmissione delle conoscenze matematiche è avvenuta anche con caratteristiche simili a quelle considerate in 2.7 (si pensi all'enorme bagaglio di conoscenze geometriche e aritmetiche già sviluppatosi prima di Euclide), # molte proprietà matematiche sono state "stabilite" sulla base di congetture e "verifiche" di tipo fisico (dal ruolo delle considerazioni meccaniche nella messa a punto del metodo di esaustione da parte di Archimede all'impiego di lamine metalliche, cesoie e bilancia a cui Galileo ricorse per dimostrare che l'area sottesa a un arco di cicloide ordinaria è il triplo dell'area del cerchio rotolante, dai teoremi di teoria delle funzioni scoperti da Riemann con esperimenti elettrici su lamine metalliche ai problemi di minimo studiati da Plateau utilizzando lamine saponate, ...), # l'impiego del calcolatore nel fare matematica ha cambiato alcuni stili di lavoro del matematico e ha posto alcune questioni relative alla sua legittimità nelle attività dimostrative;

–    il grosso problema (già accennato in 3.2) del ruolo e delle caratteristiche delle dimostrazioni, anche di fronte alla tendenze neoempiriste che, anche attraverso una rilettura ad usum Delphini della storia della matematica degli ultimi secoli, mettono in discussione la centralità della dimostrazione enfatizzando il ruolo dell'intuizione o dell'accettazione sociale dei risultati (vedi [12]);

– la questione dei collegamenti e dei rapporti tra modelli matematici, modelli di altre discipline e realtà.
 

4.    OBIETTIVI E SCELTE DIDATTICHE

4.1.    Le problematiche di natura didattica e culturale accennate nel punto 3, e che man mano approfondirò nel corso dell'esposizione, conducono a scartare decisamente ogni tentazione a fare degli alunni dei "piccoli matematici". Per quanto riguarda il nostro progetto di insegnamento della matematica, mireremo piuttosto a:

(1)    rendere gli alunni consapevoli del ruolo e della natura dei modelli matematici,
(2)    far loro raggiungere un certo livello di abilità nell'applicare, elaborare, confrontare modelli matematici,
(3)    renderli consci delle interazioni (oggi e nella storia) della matematica con il "resto".

    Per chiarire la natura di questi obiettivi prioritari mi sembra il caso di precisare l'uso che sto facendo del termine modello.

4.2.    Ovviamente non lo sto usando nel significato della logica matematica (quello per cui <Z,0,+> è un modello della teoria elementare dei gruppi) ma nel significato più usuale, quasi opposto, di "rappresentazione" più o meno astratta, più o meno fedele di una qualche "realtà" (in questa accezione è il concetto di gruppo ad essere un modello di <Z,0,+>).
    Sono dunque modelli i proverbi (le realtà rappresentate sono fenomeni naturali, relazioni sociali, ...), le "regole" grammaticali (comportamenti linguistici), i modelli in scala (edifici, macchinari, ...), le formule per il calcolo delle aree (terreni, superfici di vari materiali, ...), l'equazione differenziale del moto uniformemente accelerato (la caduta di un grave, ...), ..., e anche i concetti di gruppo e di numero transfinito (le loro realtà sono oggetti matematici).
    Le "realtà" a cui ci riferisce sono sia fenomeni e oggetti presenti in natura che oggetti e fenomeni costruiti o definiti dagli uomini. La natura "concreta" o "astratta" di questi oggetti non è una questione oggettiva, ma è un fatto culturale, che dipende dai soggetti o dai contesti in cui ci si colloca: per un architetto una quadrica può essere il concetto astratto da assumere come modello per la volta di un certo edificio, per uno studioso di geometria algebrica può essere l'esempio concreto per un concetto geometrico più astratto.

    Discipline come la fisica, la linguistica, la storia, ... sono insiemi di conoscenze, di modelli volti a razionalizzare (cioè a dare descrizioni e spiegazioni che siano chiare, ragionevoli, convincenti, coerenti, ...) una certa area di fenomeni. Esse impiegano linguaggi specializzati, ricorrendo a termini specifici nuovi o tratti dal linguaggio comune ma intesi con significati nuovi o più ristretti, a eventuali simboli particolari, a termini specifici e simboli tratti da altre discipline.
    Ma non sono solo collezioni di modelli. Ad esempio la fisica non è: un modello per descrivere come cade un oggetto lasciato cadere da una certa altezza + un modello per descrivere la forza di attrazione tra un pianeta e un suo satellite + un modello per descrivere la forza di attrazione tra il nucleo e gli elettroni di un atomo + ... . E la storia non è: un modello che individua le cause principali della I guerra mondiale + un modello che individua ... della II guerra mondiale + un modello che individua ... dell'avvento del fascismo + ... . Nelle discipline vengono anche studiate le caratteristiche generali che accomunano modelli diversi, vengono individuati collegamenti tra un modello e l'altro, ...

    A differenza di quanto accade per le discipline umanistiche e sociali, che si occupano di fenomeni episodici o mutevoli o difficili da "misurare", nelle scienze sperimentali vengono studiati soprattutto fenomeni che si ripetono sistematicamente nel tempo (ma non solo: si pensi alla cosmologia); la differenza essenziale è, tuttavia, che la validità dei modelli deve essere sempre confermata (con un certo grado di approssimazione) da verifiche sperimentali accurate e/o dedotta da altri modelli con ragionamenti svolti in modo rigoroso, cioè con passaggi argomentativi che "non lascino ombre di dubbio".
    A quest'ultimo proposito sono numerosi gli esempi di procedimenti del tutto "interni", sia al livello di calcoli ed elaborazioni di formule in linguaggi simbolici specifici (la nomenclatura della chimica e i relativi calcoli, il calcolo dimensionale, la riduzione di circuiti elettrici a circuiti più elementari, ...), sia al livello delle dimostrazioni (la dimostrazione della legge della conservazione dell'energia a partire dai princìpi di Newton, la dimostrazione delle leggi delle combinazioni chimiche a partire dalle leggi generali sulla struttura della materia, ...).
    E i modelli non sono messi a punto solo a partire da situazioni "esterne", ma, spesso, per astrarre alcune caratteristiche o per meglio esplicitare i collegamenti tra modelli della disciplina preesistenti. Pensando alla fisica si pensi ai diversi ruoli delle leggi fenomenologiche, dei princìpi e delle cosiddette superleggi (vedi [3]). Questo vale, anche se in modi diversi, per discipline di altro genere (linguistica, economia, ...).

    La matematica, come le altre discipline, si sviluppa attraverso la messa a punto di modelli, lo studio dei collegamenti che esistono tra modelli diversi, la definizione di una nomenclatura e una simbologia specifica, ... . Ma, a differenza di esse, non si occupa di una specifica area di fenomeni: i suoi modelli vengono applicati alle situazioni più diverse, spesso i modelli delle altre discipline sono ottenuti come arricchimento di modelli matematici, ... . E i modelli matematici possono avere questa caratteristica di essere potenzialmente d'uso generale in quanto vengono definiti autonomamente, senza ricorrere a concetti e termini specifici di altre discipline.

    Questa è, grosso modo, la natura delle discipline così come si è gradualmente configurata negli ultimi due secoli, in connessione con le trasformazioni economiche e sociali che hanno profondamente modificato i rapporti tra sapere, tecnica, produzione e organizzazione sociale: la metafisica, pur tra contrasti, sotto la spinta delle tensioni conoscitive e delle esigenze concrete e precise della rivoluzione economica, viene soppiantata dalla scienza (chimica, biologia, nuovi rami della fisica, ... ); l'economia diventa oggetto di teorie organiche; si diffonde l'uso della statistica e della probabilità come strumenti per rappresentare e analizzare i cambiamenti demografici, l'organizzazione della produzione, le potenzialità di un investimento, ... ; la matematica da linguaggio per argomentare rigorosamente sulle verità del mondo fisico, per descrivere fedelmente la meccanica o l'economia elementare,... diventa una scienza autonoma, senza limiti predefiniti di sviluppo e di applicabilità. E si specializzano le figure degli intellettuali, nascono le riviste di settore, si organizzano le associazioni di categoria, in parallelo si modella la scuola "moderna", organizzata in materie, con insegnanti appositamente formati, ... .

4.3.    Ciò che ho richiamato in 4.2 è, invero, abbastanza scontato. Tuttavia mi sembra che a volte venga trascurato quando ci si occupa di didattica.
    A questo proposito ricordo la fortuna che hanno avuto presso molti ambienti "didattici" le visioni empiriste della matematica, già ricordate in 3.3 (sono stati particolarmente "amati" Lakatos e, più recentemente, Morris Kline). Lo sposare queste posizioni culturali per sostenere l'opportunità di un insegnamento di tipo euristico mi sembra che faccia il paio con la posizione di chi identifica l'insegnamento della matematica con la formazione di "piccoli matematici". C'è sia un fraintendimento dell'autonomia della matematica, sia una confusione tra il problema dell'organizzazione della disciplina e quello, didattico, di come costruire la conoscenza di essa e la consapevolezza del suo ruolo culturale.
    Con ciò non voglio negare gli stimoli intellettuali e didattici che possono derivare dalla lettura di una riflessione seria sui fondamenti della matematica o, anche, delle considerazioni di un filosofo della scienza, ma voglio sottolineare l'opportunità di assumerli solo come stimoli.
    La didattica della matematica è invece segnata da simili confusioni di piani, dalle proposte di certe forme di "matematica moderna" che si modellarono sul fallimentare tentativo fondazionale bourbakista, a nuove mode che assumono come riferimento alcune metodologie di programmazione, alle proposte di introdurre la logica matematica nei curricoli scolastici.

    Le considerazioni svolte in 4.2 dovrebbero essere utili anche per collocare didatticamente i rapporti tra matematica e altre scienze. La natura astratta dei modelli (non sono rappresentazioni perfette e definitive di una qualche realtà), la loro organizzazione in teorie, l'uso di linguaggi specializzati, ... accomunano la matematica e le altre scienze. Le scienze naturali esauriscono la loro empiricità nei procedimenti con cui stabiliscono i collegamenti tra una loro teoria e un certo dominio di fenomeni; per il resto non hanno niente di empirico. La matematica si differenzia per l'assenza di questo riscontro empirico immediato: le applicazioni della matematica sono mediate dai modelli delle altre discipline, la matematica non ha in sé tutti gli strumenti per "contatti fisici" diretti.
    Da ciò l'importanza di attività didattiche (di introduzione, sviluppo o esercizio su concetti matematici) che non banalizzino i riferimenti alla realtà ma si riferiscano a situazioni problematiche di più ampio respiro, abbiano come oggetto di modellizzazione anche modelli elaborati in altri ambiti disciplinari, ... . Nel nostro progetto (vedi [1]) cerchiamo di assumere come punto di riferimento centrale i concetti di modello e di disciplina, tentando di costruire gradualmente una rete di esperienze conoscitive, di riflessioni culturali, di domini linguistici, ... che diano un'immagine abbastanza esauriente della matematica e del suo ruolo.

    Da queste considerazioni emerge anche quanto sia fuorviante individuare nell'educazione al rigore linguistico e argomentativo il compito prioritario e specifico della matematica: il concepirla come "il compito prioritario" sottointende una visione della matematica vecchia ormai di secoli; il concepirla come compito "specifico" è frutto di un'altrettanto vecchia visione delle altre discipline.
    Il risultato di questa impostazione è in genere un doppio salto rispetto all'alunno: mettendo in secondo piano il ruolo conoscitivo della matematica si oscura la natura di essa come scienza autonoma e, quindi, il ruolo della sua organizzazione linguistica e teorica; esercitando gli alunni a ripetere definizioni e dimostrazioni di cui non si fa cogliere il retroterra (perché si è arrivati a quella definizione, come si è fatto a trovare questa dimostrazione, ...) li si addestra a un rigore senza sostanza, senza controlli semantici, che non interagisce con la loro formazione culturale.
    Aver ridotto a questi aspetti l'immagine educativa della matematica è probabilmente all'origine della scarsa attrazione che essa esercita presso i giovani e della sua progressiva perdita di prestigio sociale. La matematica vista come strumento razionale per l'analisi e l'interpretazione dei fenomeni più vari, l'organizzazione di attività, la messa a punto di scelte e di strategie, ... avrebbe invece ampi spazi di interazione con gli interessi e i bisogni delle nuove generazioni.

4.4.    Per rendere praticabile un'impostazione didattica di questo tipo si deve comunque affrontare il problema del superamento dell'immagine asfittica della matematica spesso fornita o suggerita agli alunni dalle esperienze scolastiche precedenti, dal confronto con le esperienze di altri alunni e, più in generale, dal "senso comune". E non c'è solo il problema dell'immagine della matematica, ma più in generale l'immagine della scuola. Nell'elaborazione del progetto cercheremo quindi, nel nostro piccolo (nella scelta delle situazioni, del linguaggio, ...), di:

(4)    far percepire la scuola come sede di formazione culturale.

    E affinché ci sia "cultura" occorre che ci sia un'interazione con le conoscenze del soggetto e che gli obiettivi formativi siano da lui percepiti come tali.
    E affinché questa interazione si verifichi è comunque necessario che si attivino degli effettivi canali di comunicazione linguistica. Purtroppo abbiamo verificato che, attualmente, molti degli alunni che si iscrivono alle superiori, anche al liceo classico, hanno notevoli difficoltà nella comprensione (e produzione) di informazioni, ragionamenti, ... nel linguaggio verbale, orale e, soprattutto, scritto. Si tratta di un'abilità di base da ritenere indubbiamente prioritaria rispetto a obiettivi relativi al linguaggio matematico. Infatti da una parte è compito di tutti gli insegnanti, e quindi anche dell'insegnante di matematica, farsi carico di queste carenze di base. D'altra parte queste difficoltà sono all'origine di molti problemi di apprendimento matematico (comprendere definizioni, argomentazioni, testi di problemi; organizzare e comunicare un proprio ragionamento; ...). Se non se ne tiene conto e si punta direttamente solo su formalismi matematici si rischia di favorire la schizofrenia tra sapere scolastico e comprensione e un'acquisizione superficiale delle abilità linguistiche più formali.
    Dovremo meglio esplorare come queste difficoltà dipendano dal contesto e dal livello di partecipazione cognitiva, con quali differenze si manifestino le difficoltà nel comprendere e quelle nel comunicare, ....
    Alla priorità dell'educazione al rigore linguistico e argomentativo ci sembra debba essere sostituita la priorità delle attività operative di comprensione e comunicazione delle idee; all'interno di esse il rigore, la coerenza tra formulazione verbale e significati che si vogliono comunicare, la precisazione dei nessi (temporali, causali, condizionali, ...) tra le frasi, ... diventano obiettivi di cui risulta man mano più definita la funzionalità.

    In altre parole, tra gli obiettivi prioritari dell'insegnamento della matematica ci poniamo anche quello di:

(5)    concorrere all'educazione a leggere, scrivere, organizzarsi, dubitare, ...

4.5.    La questione del definire e del dimostrare ci sembra che debba essere problematizzata alla luce degli obiettivi (1), (2), (3), (4) e (5) sopra delineati. Costruendo il progetto, cercheremo di tener conto in particolare dei:

(a)    modi di apprendere in ambiente scolastico,
(b)    modi di apprendere in altri contesti (sul lavoro, nella ricerca, nelle "letture personali", ...),
(c)    modi in cui si formano e sistemano le conoscenze di una persona,
(d)    modi in cui concetti e proprietà sono stati costruiti, intuiti, confermati, ... nella storia,
(e)    modi in cui concetti e proprietà sono e possono essere sistemati internamente.

    Su (c) e sul caso particolare (a) (meno sul caso (b)) esiste un'ampia letteratura e, al livello della scuola dell'obbligo, è abbastanza diffusa una certa attenzione (in ambiti di ricerca e sperimentazione sull'insegnamento della matematica e anche in varie realtà scolastiche).
    Al livello della scuola secondaria superiore, sia in Italia che all'estero, non esiste invece una grande sensibilità su questi aspetti. Credo che nella scuola superiore gli aspetti (d) e (e) (ma anche l'aspetto (b)) debbano assumere un rilievo maggiore rispetto ai livelli scolastici precedenti, e che senza sciogliere alcuni nodi relativi a (d) e, soprattutto, a (e) probabilmente non si possono affrontare efficacemente neanche gli altri aspetti. Nel seguito farò qualche esempio al riguardo.
    Ma mi sembra che oggi anche gli aspetti (d) e (e) siano tendenzialmente affrontati in modo nozionistico ed episodico, senza un grande respiro culturale.

    Comunque non abbiamo ancora chiaro come organizzare la nostra riflessione e come "equilibrare" la progettazione in relazione a queste problematiche psicopedagogiche e culturali. La sperimentazione ci darà qualche indicazione al riguardo. Il taglio di questo contributo, un po' per inclinazione personale, un po' perché siamo nella fase iniziale del progetto, è decisamente di tipo "culturale": degli alunni cercherò di tener presenti i bisogni e interpretare alcune difficoltà più manifeste; un'analisi delle concezioni, dei fraintendimenti, delle modalità argomentative, ... di cui essi sono portatori richiederebbe un bagaglio di osservazioni di cui ancora non possiamo disporre.
    In particolare, nei paragrafi seguenti cercherò di delineare, in forma molto schematica, alcuni dei principali punti relativi al "definire" e al "dimostrare" che dovremo prendere in considerazione (per approfondimenti a livello adulto e per operare scelte didattiche).
 

5. SULLA DEFINIZIONE (INTRODUZIONE, DELIMITAZIONE, ...) DEI CONCETTI

5.1.    Alla luce di quanto osservato finora, occorre distinguere due aspetti di fondo:

(A)    Come costruire mentalmente il significato di un concetto (funzione, uso, forma, ...)
(B)    Come darne una "definizione"

5.2.    Per avviare un approfondimento dei rapporti tra questi due aspetti partirò da alcune considerazioni sui libri di testo più diffusi, che spesso, nella scuola (per alunni e per insegnanti), fungono da paradigmi del definire e del dimostrare. Per fare qualche esempio estraggo qualche baggianata (riferita a concetti base) dal "nuovo" libro di testo forse più diffuso (e pubblicizzato più o meno esplicitamente in varie iniziative connesse al PNI), di cui un autore è membro della Commissione Brocca (sic!): il "Battelli-Moretti". Ho scelto questo libro solo per la sua fama: errori tecnici e di impostazione simili sono presenti in molti degli altri libri di testo più "gettonati".

(1)    «Definizione. Quel "quid" che accomuna i segmenti che appartengono a una stessa classe di equivalenza, associata alla relazione di isometria, si chiama lunghezza»

    A parte il fatto che questa frase non definisce alcunché (che oggetto matematico è questo "quid"?), che senso avrebbe definire in questo modo la lunghezza una volta che nel libro si è introdotto (malamente anche questo) il concetto di distanza? Una definizione di lunghezza mediante classi di equivalenza avrebbe senso, ad esempio, se venisse assunta come primitiva la nozione di congruenza!

(2)    «Postulato 5. Ogni retta è illimitata in entrambi i sensi», «Postulato 7. La retta è un insieme continuo di punti»

    Che vuol dire "illimitata"? Dire che la retta è un insieme continuo (cioè, come si dice più avanti nel libro, tale che esite una corrispondenza biunivoca f tra esso e R) non garantisce affatto dall'assenza di "buchi": ce ne possono essere comunque un'infinità più che numerabile; come è noto occorre che f sia un sistema di coordinate, cioè che valga anche: |f(P)-f(Q)| = d(P,Q).

(3)    «Dato un insieme, i suoi elementi o sono elencati a uno a uno, oppure sono determinati da una legge di appartenenza adatta a stabilire con certezza e oggettività se un elemento x qualsiasi appartenga o no all'insieme in oggetto».

    A parte il «dato» (se sto dicendo come si "dà" un insieme questo come può già essere dato?) e l'«x» (un "x" non fa mai male, ma a che serve?), se per ogni insieme valesse questa certezza non esisterebbero problemi aperti, non esisterebbe la ricerca matematica. Ad esempio per porsi il problema se un certo numero è razionale si deve aver prima definito l'insieme dei numeri razionali, e fino alla scoperta che π è irrazionale (18° secolo) non si sarebbe potuto parlare dell'insieme dei numeri razionali, anzi, neanche fino a una decina di anni fa, poiché non si sapeva se la radice quadrata del numero di colori sufficienti per distinguere gli stati di una carta geografica era irrazionale o no, anzi, neanche ora, poiché ... (basta prendere un numero la cui razionalità dipenda dalla soluzione di un qualunque problema aperto). Per altro vi sono insiemi per cui si può dimostrare che l'appartenenza ad essi è indecidibile (anche in molti corsi di aggiornamento del PNI sono stati ricordati alcuni di questi insiemi: l'insieme dei programmi che terminano, l'insieme dei programmi estensionalmente equivalenti a un programma dato, l'insieme dei teoremi del calcolo dei predicati del I ordine, ... !).

(4)    Senza alcuna motivazione storica o culturale e senza collegamenti con i modi con cui si scrivono e si usano normalmente i numeri, i vari sistemi numerici, invece che essere introdotti direttamente, vengono definiti riconducendosi a N (per altro introdotto solo come insieme, con cose del genere: 2 è il "quid" che accomuna gli insiemi equipotenti a {a,@}, senza preoccuparsi di considerare le operazioni) ma con grosse lacune: i numeri relativi vengono introdotti come classi di equivalenza di N×N ma non vengono definite operazioni e relazioni, i numeri razionali vengono introdotti come classi di equivalenza di Z×Z e viene introdotta l'addizione nel modo usuale ([(m,n)]+[(p,q)]=[(m·q+p·n,n·q)]) senza accenni al problema dell'indipendenza (di [(m·q+p·n,n·q)]) dalla scelta di m, n, p e q.
    Per i numeri reali si arriva a dire: «chiamiamo numero irrazionale l'elemento separatore di una coppia di classi contigue di numeri razionali», con la facile conclusione che tutti i numeri reali sono irrazionali (ad es. 1 è contenuto in [0.9,1.1], [0.99,1.01], ... ).

5.3.    Questi esempi clamorosi di errori "veri" (non di "sviste") non vogliono tanto introdurre un discorso sui libri di testo e sulle enormi responsabilità ministeriali al riguardo (o sui modi in cui vengono scelti i membri delle commissioni che riformano i programmi ...) quanto porre il problema che la preferenza da parte di molti insegnanti verso manuali di questo genere,
–    con impostazioni che vorrebbero essere "rigorose" (con premesse di logica, tante belle definizioni, assiomi qua e là, ...)
–    e che sono zeppi di definizioni e argomentazioni errate,
mette in luce la superficialità con cui vengono affrontati gli aspetti (A) e (B).

    Da un lato la scelta verso impostazioni più "interne" e "formali" non tiene conto dell'importanza:
–    di situazioni che "veicolino" (e/o costituiscano "prototipi" per) i concetti matematici in maniera culturalmente significativa per gli alunni,
–    dell'attenzione agli aspetti linguistici e alle ambiguità/confusioni concettuali a cui possono dar luogo le diverse semantiche del linguaggio comune e dei linguaggi specialistici,
–    del cercar di far venir fuori e mettere a confronto o in contraddizione le idee, i pregiudizi, le conoscenze distorte degli alunni, cose non conseguibili se si procede cumulando nozioni su nozioni.

    Dall'altro lato il fatto che non vengano colti errori tecnici o di impostazione così grossi fa supporre che la fruibilità di un testo venga ridotta all'esame dell'aspetto grafico, della presenza di specchietti, ... e, eventualmente, della eventuale comprensibilità "sintattica" delle frasi, senza mettersi nella prospettiva dell'alunno, che dal libro deve comprendere anche i "significati".

    In definitiva mi sembra che spesso l'insegnante non "decentri", non si ponga il problema di come il libro di testo costruisca mentalmente o definisca i concetti per "chi non sa", ma legge superficialmente, accontentandosi che definizioni, commenti, ... facciano venire in mente a lui, "che già sa", le cose che dovrebbero essere spiegate.

    L'importanza che l'insegnante si attivi culturalmente mettendo a frutto le proprie competenze disciplinari per analizzare criticamente ciò che gli viene proposto e che si attivi didatticamente cercando di tener presente ed esplorare il punto di vista degli alunni mi sembra un aspetto essenziale delle questioni che ci dovremmo porre in questo internucleo.
    Indubbiamente enormi responsabilità per questa situazione sono da addebitare alla formazione universitaria ricevuta dagli insegnanti, in cui, spesso, gli esami [le dispense, i manuali] si riducono a una riproposizione acritica di definizioni e di dimostrazioni imparate a memoria [riscritte in forma compatta e asettica, depurate da motivazioni e argomentazioni "superflue" rispetto ai manuali da cui sono state scopiazzate].
    Un insegnamento che proponga definizioni, dimostrazioni, tecniche senza respiro culturale ha anche effetti negativi sulle cosiddette capacità "metacognitive" dell'alunno: adeguandosi a conoscenze e schemi di comportamento che non comprende o non trova motivati, egli non sviluppa o diminuisce le capacità di dirigere ed esprimere il proprio pensiero, e non solo in ambito matematico.
    Ciò non vuole essere una condanna in blocco delle forme di insegnamento di tipo direttivo e un elogio di forme più "dialogiche". Anche forme di insegnamento non direttivo hanno assai spesso questi difetti (se il dialogo rimane superficiale si ha comunque un "adeguamento"), mentre esistono forme di insegnamento direttivo (in cui l'insegnante si propone come l'adulto colto-autorevole, che "sa" la materia, svolge consapevolmente il proprio ruolo di "anziano", mette in luce le "conquiste di pensiero" dell'umanità, ... ) che, pur senza una riflessione psico-pedagogica alle spalle, di fatto affrontano positivamente gli aspetti (A) e (B), non solo nei confronti dei ragazzi maggiormente "dotati". Nella nostra esperienza di alunni probabilmente anche noi abbiamo incontrato qualche insegnante di questo tipo.

5.4.    Oltre all'attenzione alla scelta delle situazioni, agli aspetti linguistici, ai fraintendimenti degli alunni, occorre tener conto di un altro aspetto, spesso trascurato (vedi 1.3.(1)): quello dei collegamenti e delle interazioni con gli altri concetti matematici, sia al livello mentale che al livello disciplinare, e del fatto che questi legami possono emergere o modificarsi man mano che vengono raggiunti nuovi livelli di formalizzazione e di sistemazione. Ad esempio, rispetto alla scuola media, nella scuola superiore i concetti geometrici possono trovare nuovi collegamenti con i concetti algebrici, con occasioni per definizioni più formali degli oggetti geometrici, per generalizzazioni di concetti algebrici, ... e spunti per percorsi didattici più efficaci ed "economici".

5.5.    Le relazioni tra (A) e (B), tra sistemazione mentale dei concetti e loro definizioni, cioè:

–    la trasparenza del collegamento tra significato e definizione,
–    la significatività di questo collegamento,
–    l'ordine o l'eventuale contestualità delle due introduzioni (costruzione mentale del significato e definizione formale),
–    l'opportunità di fermarsi ad (A) o la possibilità di possibilità di affrontare anche (B),
–    ...

dipendono sia dalla articolazione della programmazione (cioè, nel nostro caso, da come svilupperemo il progetto) che dal tipo di argomento matematico.

    In particolare, da questo secondo punto di vista, queste relazioni possono essere condizionate:

(1)    dalle difficoltà tecniche, che possono essere legate a problemi
      di   (1.1) estensione     o di   (1.2) profondità

(2)    dalla qualità e dalla quantità di matematica incorporata nelle situazioni d'uso.

    Ad esempio per la proporzionalità diretta e inversa, per molti concetti di statistica descrittiva, per il concetto di numero reale (inteso come decimale illimitato), ... grazie a (2) c'è una forte concordanza tra definizione e costruzione dei significati.
    Nel caso della definizione assiomatica degli enti geometrici ci troviamo, invece, di fronte a problemi sia del tipo (1.1) - il significato di un concetto è dato implicitamente da un ampio complesso di assiomi - che del tipo (1.2) - la natura delle definizioni assiomatiche.
    Nel caso del calcolo delle probabilità (concetto di probabilità, di caso, di legge di distribuzione, ...) abbiamo invece essenzialmente problemi di tipo (1.2): definizioni formali rigorose non sono alla portata della scuola secondaria superiore (anche se qualche manuale scolastico "tenta" di definire assiomaticamente la probabilità, confonde il limite "per ogni ε esiste n ..." con il limite "probabilistico", ...); ciò non toglie che sia possibile mettere a punto modelli matematici assumibili come definizioni di casi particolari di questi concetti (si può affrontare il caso di un numero finito di eventi possibili, si può considerare il caso di eventi costituiti da sottoinsiemi di R limitandosi a considerare intervalli o unioni finite di intervalli, ...).( * )

5.6.    Il modo in cui introdurre/definire un concetto matematico dipende anche da alcune sue caratteristiche generali.
    Ad esempio in alcuni casi definiamo:
(1)    un singolo oggetto √2, distanza euclidea, piano euclideo - definito come R2 o mediante un'assiomatizzazione della geometria piana, ...),
    in altri casi definiamo:
(2)    classi di oggetti (numero primo, retta - definita analitica -, funzione, ...).

    In situazioni del tipo (2) c'è differenza ad esempio tra il caso di:
(2.1)    punto e retta definite analiticamente, funzione, ...: abbiamo un'idea intuitiva con cui rappresentiamo certi fenomeni e andiamo a costruirne un modello matematico (cioè la esprimiamo ricorrendo ad oggetti matematici già noti), ad esempio il punto come coppia di numeri reali, la retta come P=A+tv o come ax+by+c=0, la funzione come insieme di coppie tali che ..., ...
    e il caso del concetto di:
(2.2)    gruppo: è un concetto matematico di natura diversa dai precedenti; lo usiamo per descrivere un comportamento comune a vari oggetti matematici (strutture numerici, particolari classi di funzioni, ...) e lo definiamo mediante un'elencazione di proprietà.

    In situazioni del tipo (1), quando l'oggetto non è

(1.1)    costruito
ma è definito mediante un'elencazione di proprietà, si possono porre problemi tecnici non sempre banali relativi all'unicità dell'oggetto definito (e alla sua esistenza "logica"):
(1.2)    se si definisce √2 come il numero che al quadrato fa 2 si pone il problema (a meno che non si definiscano assiomaticamente i numeri reali e si metta tra gli assiomi la cosiddetta "completezza euclidea": ogni numero positivo ha una radice quadrata) che tale numero esista e sia unico, e ciò può essere risolto abbastanza facilmente
–    costruendo l'algoritmo che ne genera le approssimazioni per difetto x0, x1, x2, ... a meno di 1, 0.1, 0.01, ... (xn2 ≤ 2 ≤ (xn+10-n)2) (ciò garantisce l'unicità: affinché verifichi la condizione occorre che sia fatto così) e
–    verificando che xn2 approssima 2 con precisione che tende a 0 al crescere di n (ciò garantisce l'esistenza: se è fatto così verifica la condizione).

(1.3)    nel caso della definizione assiomatica del piano euclideo, non è affrontabile nella scuola secondaria superiore una discussione dell'unicità (a meno di isomorfismi) di tale oggetto matematico; e per dimostrarne l'esistenza occorrerebbe comunque rifarsi a una descrizione analitica del piano;

(1.4)    sono più semplici situazioni come queste:
    (a)    f(0) = 1, f(n+1) = f(0)-f(n)
    (b)    g(0) = 0, g(n+1) = g(1)+g(n)
    (c)    h(0) = 1, h(n+1) = h(1)+h(n)         [n in N]
in cui è facile distinguere quando una definizione ammette un solo oggetto che la soddisfa (come in (a): la funzione caratteristica dei numeri pari), infiniti (come in (b): le funzioni "multiplo"; g(n) è pari a k·n, essendo k il valore di g(1)) o nessuno (come in (c): h(1) dovrebbe essere pari a h(1)+1, il che è impossibile).

    Il caso (1.3) non pone solo problemi tecnici, ma anche problemi culturali-psicologici più generali. Una definizione assiomatica come (2.2) è facilmente accettabile (non definiamo un particolare oggetto ma una nuova "classificazione" di oggetti matematici), così come lo sono una definizione come (1.4.a) e altre definizioni per induzione più significative di questa (quanto meno perché sono definizioni che contestualmente a una funzione descrivono anche come calcolarla). Invece la definizione assiomatica del piano pone il problema che le espressioni "punto", "retta", "giace tra", ... presenti negli assiomi sono da intendersi come dei simboli privi di significato autonomo, come la "f" in (1.4.a), che assumono significato solo dal complesso del sistema assiomatico, ma, nel contempo, sono anche i nomi con cui si identificano i concetti intuitivi, cioè gli oggetti del modello standard che gli assiomi vogliono individuare.

5.7.    La matematica, come altre discipline (in particolare si pensi alla linguistica), presenta spesso un alternarsi e un mescolarsi di piani di riflessione, descrizione, comunicazione linguistica, ... diversi. Per fare un esempio "sofisticato" si pensi alla situazione in cui si descrive che cos'è una dimostrazione o che cos'è una definizione. Per esempi più "quotidiani" si pensi all'uso "informale" di numeri naturali, concetti spaziali e insiemistici, concetti quali successione, funzione, ... nel corso di definizioni e dimostrazioni.
    Spesso nel "livello" e nel "metalivello" si usano strumenti e metodi "uguali". Un approccio formale all'insegnamento della matematica dovrebbe sciogliere e chiarire questi nodi, per essere comprensibile. Ma è possibile al livello della scuola secondaria?
    Vi sono, comunque, anche situazioni più semplici che possono originare ambiguità e creare negli alunni confusioni concettuali, magari non subito evidenti. Si pensi, prendendo esempi da qualche libro, alla descrizione di {a,b,c} come {x: x precede alfabeticamente d} (ma "x precede d" non è falsa?), alla descrizione di insiemi con patate contenenti pallini tutti uguali (ma, allora, hanno un solo elemento?), alla definizione di monomio come espressione costituita da moltiplicazioni di numeri e variabili (1/2x e (2+3)x sono monomi, cioè 1/2 e (2+3) sono numeri o no?).
    Più in generale spesso si usa confondere il nome di un oggetto matematico con l'oggetto stesso, si usa confondere un termine numerico con il suo valore, .... A volte certe notazioni possono essere introdotte come abbreviazioni o come simboli di nuove operazioni. Ad esempio se -x e x2 vengono intese come abbreviazioni di x·(-1) e di x·x anche -x e x2 sono monomi per la definizione precedente, se invece sono intese come il frutto dell'applicazione di un "cambio segno" e di un "elevamento a potenza" non rientrano in tale definizione.

    Una questione strettamente collegata è quella del significato del concetto di eguaglianza. Ad esempio nel libro citato in precedenza si spiega che, mentre possiamo dire che «x=6+2 è uguale a y=23» in quanto sia x che y rappresentano 8 e "uguaglianza" vuol dire "essere lo stesso oggetto", non possiamo dire che due segmenti sovrapponibili sono uguali.
    A parte lo scambiare il confronto di due equazioni con il confronto di due termini numerici (probabilmente si voleva usare "=" come simbolo definitorio o di assegnazione, ma perché non chiarirlo agli alunni? o perché non confrontare direttamente 6+2 e 23?), si pone il problema che i termini numerici 6+2 e 23 sono due oggetti matematici diversi, così come diverse sono le equazioni x+x = 2, x = 1 e x3 = 1, o le equazioni 0 = 1 e y = y+1.  E 1.999... e 2.000... sono lo stesso oggetto o no? E non esistono triangoli uguali, poiché un triangolo è uguale solo a sé stesso?
    I problemi che comporta questa "definizione" di eguaglianza (che, detta meglio, purtroppo si trova anche in manuali "seri") richiamano l'importanza di educare alla relatività del concetto di eguaglianza, ovvero al concetto di equivalenza, da non banalizzare in qualche giochetto sulle partizioni, ma da estendere ai più vari ambiti della pratica matematica: termini algebricamente equivalenti ma non equivalenti dal punto di vista computazionale, algoritmi diversi che sono estensionalmente equivalenti (stessi output a parità di input), rappresentazioni dello stesso numero reale che possono differire per la quantità di informazione richiesta dallo loro descrizione (1/7 e 0.142857...), curve uguali come "supporto" e diverse come "descrizione parametrica", ...

5.8.    Non si definiscono/costruiscono, poi, solo concetti e oggetti matematici, ma si definiscono/costruiscono anche modelli matematici applicati a particolari situazioni, il che comporta nuove questioni, più legate all'area di "realtà" a cui si riferisce la situazione, e in genere mediate da conoscenze riferibili ad altre discipline. Ad esempio definire un modello di tipo "equazione" comporta indicare la precisione delle costanti numeriche, gli intervalli entro cui devono cadere le variabili, ... ; definire un modello di tipo probabilistico comporta la precisazione delle ipotesi sul comportamento del fenomeno considerato che si stanno assumendo; anche costruire un modello statistico di una serie di informazioni numeriche relative a una certa situazione (un rappresentazione mediante: un istogramma di distribuzione, un grafico con interpolazione lineare, l'applicazione ripetuta di medie mobili, numeri indici, scala logaritmica, ...) comporta un'esplicitazione degli aspetti in cui il modello è più o meno adeguato e fedele alla situazione; ... .

5.9.    Capire il ruolo delle definizioni matematiche, cioè della natura degli oggetti matematici, è certamente fondamentale, non solo a fini disciplinari, ma a fini culturali più generali.
    A tale scopo mi sembra importante non tanto infarcire di definizioni formali l'insegnamento quanto mettere a fuoco questo ruolo con esempi, con considerazioni storiche, con specifiche riflessioni "ad hoc". Ad esempio riflessioni su come è cambiato il modo di definire le funzioni (non più "leggi che ..." ma "insiemi di coppie tali che ...") in relazione al passaggio dalla matematica come linguaggio della fisica alla matematica come scienza autonoma, capace di essere applicata ai più vari contesti, su come è cambiato il modo di concepire i numeri (le difficoltà concettuali di quando non si usava la rappresentazione decimale illimitata), di definire gli enti geometrici (dal punto come "ciò che non ha parti" al punto come coppia o terna o ... di numeri reali), ...
    A tal fine è anche bene fare piazza pulita (nella nostra testa) di molti luoghi comuni, come quello che è il metodo assiomatico che caratterizza la matematica moderna e la sua natura astratta o come quello della pura convenzionalità delle definizioni matematiche e dei nomi dati ai concetti matematici.
    Per il secondo luogo comune basti pensare come la matematica, così come le altre scienze, abbia i suoi fondamenti concettuali in una rete complessa di "riferimenti" a situazioni (sia situazioni applicate che esperienze di lavoro, di pratica matematica) e di "nomi" (nomi di cose, nomi di idee, nomi di nomi). E in matematica la scelta dei nomi è spesso decisiva poiché, a differenza di quello che accade in molte altre scienze (in cui spesso gli "oggetti" esistono di per sé, come un animale, un minerale, ...), i suoi oggetti esistono solo in quanto è l'uomo a inventarli e usarli, e i loro nomi sono importanti per illuminarne il ruolo, la collocazione, le connessioni con gli altri concetti, le possibili applicazioni (esterne e interne), ...
    Per il primo luogo comune si tenga presente che non conta il modo in cui i concetti matematici vengono definiti (con assiomi, con procedimenti costruttivi, ...) ma la loro natura di modelli matematici. E questa natura (anche senza certe "chiacchiere" sulle geometrie non euclidee) è abbastanza facile farla percepire agli alunni: possibilità di rappresentare una realtà con modelli matematici differenti (in relazione a diverse esigenze conoscitive, applicative, ...), possibilità di rappresentare realtà diverse con il medesimo modello matematico o con modelli matematici con aspetti comuni, utilità della messa a punto di proprietà e metodi per elaborare internamente i modelli matematici (per evitare di ripetere ragionamenti simili situazione per situazione, per ridurre la possibilità di commettere errori, per poter ricorrere a "banche" di formule, programmi, ...).
    Del resto nel lavoro dei matematici le definizioni assiomatiche assai di rado vengono impiegate per descrivere completamente una particolare struttura matematica (cioè come sistemi assiomatici categorici, ossia con un unico modello a meno di isomorfismi, come nel caso 5.6.(1.3)). Per lo più vengono impiegate (come nel caso 5.6.(2.2)) per descrivere alcuni aspetti comuni a molte strutture, al fine di economizzare (e, a volte, semplificare, grazie al contesto più "nitido" in cui il matematico si trova ad operare) le attività dimostrative e definitorie.
    Le definizioni assiomatiche di singole strutture (e, più in generale, la assiomatizzazione di teorie matematiche come la teoria degli insiemi, la teoria dei numeri, ...) sono essenzialmente oggetto di studi di tipo fondazionale o di tipo più strettamente logico matematico, e sono sempre successive alla definizione per altre vie di tali strutture, allo sviluppo di relative solide teorie matematiche, ... . Sono comunque spesso anche presenti obiettivi di "economizzazione". Ad esempio anche la assiomatizzazione della geometria operata da Hilbert aveva sia l'obiettivo di fondare in modo coerente la geometria dello "spazio euclideo", sia quello di chiarire la portata delle conseguenze dei singoli assiomi, in modo da individuare quelli che possono essere utili per descrivere altre strutture matematiche (e sviluppare altre geometrie "significative").
    In altri casi le definizioni assiomatiche vengono impiegate con obiettivi di tipo didattico: ad esempio è tipico dei manuali universitari di analisi matematica descrivere assiomaticamente (e con sovrabbondanza di assiomi) i numeri reali per poter disporre immediatamente di tutta una serie di proprietà; vengono messi in luce i collegamenti con la notazione decimale e viene rinviata a eventuali - e raramente presenti - studi successivi (quando si avranno strumenti algebrici adeguati) lo studio di come R possa essere costruito. Per altro in genere non viene discussa la categoricità del sistema di assiomi presentato, con l'esplicita osservazione che la struttura matematica dei numeri reali la si dà per costruita e che se ne vogliono solo descrivere alcune proprietà. Anche nei manuali universitari dedicati alla formalizzazione della geometria elementare spesso si usano assiomi che hanno il solo scopo di semplificare il lavoro. Ad esempio spesso vengono introdotti assiomaticamente le funzioni area e volume mentre potrebbero essere costruite a partire dagli altri assiomi. Esempi analoghi si possono fare per altri settori della matematica.

5.10.    Mi rendo conto che, in queste riflessioni, vi sono molte osservazioni "critiche" e scarse indicazioni didattiche "spendibili" in classe. Ciò, come ho già osservato, rispecchia la fase iniziale del nostro lavoro. Tuttavia è pure frutto della convinzione che un cambiamento dell'insegnamento della matematica nella scuola secondaria superiore debba passare anche attraverso un ripensamento della "matematica" che si propone agli alunni, e spero che questo mio contributo sia almeno stimolante da questo punto di vista.
    Per essere più chiaro espliciterò, comunque, alcune osservazioni "in positivo", che corrispondono a soluzioni didattiche che stiamo esplorando per il nostro progetto (qualche considerazione più dettagliata è presente in [8], qualche esemplificazione in termini di materiale didattico sarà presente in [1]):
–    Definire i cosiddetti enti geometrici primitivi in termini analitici: associare all'idea intuitiva di punto gli oggetti matematici numero reale o coppia o terna di numeri reali, associare all'idea di retta ... (vedi 5.6.(2.1)); assumere la distanza euclidea (cioè quella indotta dal teorema di Pitagora) come una delle possibili definizioni di distanza (in contrasto, ad esempio, alla "distanza urbanistica"); ...; ciò, tra l'altro, renderebbe assai più chiara la natura di modelli matematici dei concetti introdotti (non escludendo la possibilità di definire altri concetti e di sviluppare alcune dimostrazioni in modo "sintetico"), si collegherebbe assai bene all'uso del computer e faciliterebbe l'introduzione delle trasformazioni geometriche e della misura degli angoli (attraverso un'introduzione "algoritmica" alla lunghezza degli archi).
–    Definire direttamente i numeri reali come numeri decimali illimitati; mi sembra l'unica introduzione che sia affrontabile motivatamente e "rigorosamente" nella scuola secondaria superiore.
–    Nel caso precedente e in altre situazioni, precisare che quando si costruisce un nuovo insieme di oggetti matematici a partire da altri oggetti occorre definire una nuova nozione di "identità"; ad esempio se l'insieme dei numeri naturali fosse definito come l'insieme delle "parole" costruibili con l'alfabeto {0,1,...,9} occorrerebbe precisare che due di tali parole sono uguali "come numeri" se l'una può essere trasformata nell'altra aggiungendo degli "0" in testa; nel caso dei numeri reali definiti come sopra occorrerebbe precisare che sono da considerarsi eguali come numeri le espressioni 1.3999... e 1.4000..., ecc. La nozione di relazione di equivalenza dovrebbe, cioè, avere un uso diffuso, non essere limitata a riflessioni di "insiemistica" che, di fatto, rimarrebbero marginali (vedi anche 5.7).
–    Definire direttamente solo i polinomi in una (o in due o ...) indeterminate, come si fa in analisi matematica o in algebra "moderna", evitando le definizioni "generali" (in genere errate o contraddette nelle prime batterie di esercizi) tradizionalmente presenti nei libri di "algebra" della scuola secondaria superiore, e poi abbandonate per lavorare solo sui "polinomi in x".
–    Definire la continuità (delle funzioni reali di variabile reale) solo su intervalli, non su punti, mediante quella che viene tradizionalmente assunta come definizione di uniforme continuità; questa strada (che è quella scelta nell'ambito della matematica costruttiva e in alcuni manuali di Calculus, come il Lax) mi sembra che (oltre a facilitare l'introduzione dell'integrazione) abbia due vantaggi: # è più vicina al concetto "intuitivo" di continuità (che non è "puntuale") e è adeguata a tutti gli sviluppi affrontabili nella scuola secondaria superiore; # corrisponde al concetto di funzione tabulabile, ovvero rappresentabile (graficamente o tabularmente) con un calcolatore: comunque si fissi Δy si può trovare n tale che, ripartito [a,b] in n intervallini uguali, f(x) è approssimata con errore inferiore a Δy da f(xi) se xi è un estremo dell'intervallino in cui cade x.
    Si tratta di esempi di soluzioni didattiche che potrebbero superare alcune delle difficoltà concettuali che gli alunni incontrano nell'affrontare questi argomenti. Nell'ambito dello studio dei processi di apprendimento queste difficoltà vengono spesso collegate alla presenza di alcuni "ostacoli epistemologici", che si cerca di individuare sia con riflessioni "teoriche" che attraverso opportune attività di sperimentazione. A volte, tuttavia, queste ricerche fanno riferimento a una presentazione di un determinato concetto matematico (per intenderci: la continuità definita puntualmente, gli enti geometrici primitivi presentati per via assiomatica, ...) che viene assunta come assoluta, senza preoccuparsi della possibilità di diverse presentazioni (spesso con clamorose incomprensioni delle presentazioni matematiche scelte: si pensi alle confusioni concettuali sull'aritmetica e la geometria presenti nei lavori di Piaget e, soprattutto, dei suoi epigoni).

    In questo senso vanno intese le considerazioni che abbiamo svolto in 4.5 sull'importanza di tener conto dell'aspetto (d) e (con atteggiamento "pluralista") dell'aspetto (e). Ciò, del resto, accade in varie delle più recenti ricerche sugli ostacoli epistemologici.
 

6. SULLA DIMOSTRAZIONE (ARGOMENTAZIONE, ...)

6.1.    Per la dimostrazione si possono fare considerazioni per molti versi simili a quelle svolte per la definizione.
    Innanzi tutto mi pare utile distinguere i seguenti aspetti:

(X)    Come convincere (gli alunni) di un fatto
(Y)    Come individuare il fatto da dimostrare/confutare
(Z)    Come creare l'idea della necessità (in matematica) del dimostrare
(W)    Come condurre la dimostrazione eventuale

6.2.    Anche nel lavoro del matematico l'individuazione della proprietà da studiare, il convincimento sulla sua verità o falsità e la dimostrazione sono in genere momenti distinti. L'attività dimostrativa costituisce comunque una parte quantitativamente non preponderante del suo lavoro. In gran parte egli studia, legge teoremi messi a punto da altri, cerca di coglierne il significato, cerca di convincersi di essi e della loro utilità, solo di pochi di essi esamina le dimostrazioni. E quest'ultima attività la compie, in genere, non per controllare la dimostrazione e convincersi della verità del teorema, ma nella speranza che la dimostrazione gli faccia comprendere meglio la portata del teorema, i suoi collegamenti, ... .
    Poi, una consistente parte dell'attività dimostrativa (spesso una delle più significative) consiste nella ricerca di nuove formulazioni o nuove dimostrazioni di un teorema, a volte che richiedano ipotesi più deboli, spesso che, semplicemente, siano più "leggibili" o più "illuminanti" (qualcuno a volte parla di "eleganza", ma si tratta di una qualificazione un po' fuorviante, anche se c'è effettivamente chi privilegia l'eleganza esteriore, la brevità, ... rispetto all'espressività). In alcuni casi l'analisi delle dimostrazioni esistenti, la ricerca delle caratteristiche essenziali delle ipotesi, ... conducono a generalizzazioni del teorema in nuovi e più astratti ambiti teorici.
    Quindi, anche nell'ottica di fare dei "piccoli matematici", le attività dimostrative diventano significative solo se inserite in un contesto di attività matematiche assai più ampio.

    Venendo, invece, all'insegnamento inteso nel modo che abbiamo delineato nel punto 4, mi sembra che nella costruzione delle conoscenze matematiche degli alunni sia decisamente da privilegiare l'attenzione ai problemi (X) e (Y), considerando la dimostrazione non come uno degli strumenti fondamentali per questa costruzione, ma, soprattutto, come un oggetto di riflessione, mettendo in rilievo il ruolo che essa ha avuto e ha nell'edificazione della matematica.
    (X), in questo caso, non è da intendersi come il convincere "pre-dimostrativo", ma come la edificazione di tutta una serie di riferimenti a situazioni d'uso, a problemi teorici, a interazioni concettuali, ... che facciano percepire i legami tra il fenomeno matematico considerato e il resto della teoria matematica in cui si inserisce. Si pensi, per fare qualche esempio, ai teorema di Talete e di Pitagora e al loro ruolo nella costruzione della geometria, alla convergenza delle successioni crescenti limitate superiormente e all'intreccio di questa proprietà con l'edificazione dell'analisi matematica, alle proprietà di iniettività, monotonia, ... che si conservano/modificano/perdono componendo funzioni e ai collegamenti con i procedimenti per risolvere equazioni e disequazioni, ...
    Del resto i confini tra (X) e (Y) non sono molto netti. E quando per il matematico abbiamo parlato del convincersi della verità di una certa proprietà come momento distinto dal comprenderne (o cercarne) una dimostrazione, in realtà ci siamo espressi in modo non del tutto adeguato. La costruzione di una teoria matematica, la definizione dei concetti matematici, ... non sono una fase del tutto iniziale a cui segue la ricerca di verità e di loro dimostrazioni. In realtà una teoria matematica viene edificata avendo in testa un nucleo di fatti che si vogliono ottenere. In altre parole la dimostrazione più che il fine di stabilire la verità di qualche singolo fatto (aspetto presente, ma "in seconda battuta") ha quello di verificare l'adeguatezza della teoria messa a punto, la sua capacità di inquadrare tutta una serie di fenomeni, di stabilirne collegamenti, ... . Queste considerazioni dovrebbero rispondere in qualche modo ai problemi sollevati in 3.2.

    L'importanza di (Z) e (W) mi sembra che vada inquadrata alla luce di queste osservazioni.

6.3.    L'aspetto (Z) comporta la presentazione di situazioni (di cui ci sono molti esempi) che mettano in evidenza come a volte:

(1)    l'intuizione possa condurre a conclusioni errate,
(2)    l'intuizione non basti per raggiungere una conclusione.

    Un ruolo importante, in relazione sia a (Z) che a (X) e (Y), lo hanno le attività di

(3)    sperimentazione, numerica e non:
far congetture, testarle, trovare eventuali controesempi, ... . Il calcolatore può essere di grande aiuto al riguardo.

    Abbiamo parlato anche di sperimentazioni non numeriche, e in effetti, per quanto le proprietà aritmetiche si prestino assai bene per queste attività, la cosa vale anche per la geometria: si pensi all'uso del calcolatore per congetturare/verificare la possibilità di ottenere una particolare trasformazione geometrica come composizione di altre trasformazioni geometriche, le proprietà conservate da una classe si trasformazioni geometriche, la relazione tra perpendicolarità e distanza (minimizzando la distanza tra un punto fisso C e un punto mobile P su una retta AB e confrontando i versori di CP e di AB), .... E vale anche per il calcolo delle probabilità, forse più che per tutte le altre aree.

    Sono presenti anche connessioni con le attività di:

(4)    definizione (esistenza e unicità dell'oggetto definito): si vedano 5.6.(1.2)-(1.4)

e con questioni relative alla:
(5)    possibilità di costruire oggetti matematici (figure, trasformazioni geometriche, funzioni, ...) utilizzando un particolare insieme di risorse matematiche: invece o accanto alla riga e al compasso euclidei sono possibili molti collegamenti con aspetti tecnologici storicamente o attualmente significativi (dai meccanismi per realizzare trasformazioni geometriche, che hanno avuto un ruolo importante nella rivoluzione industriale e sono tuttora diffusissimi, ai problemi relativi al disegno con l'aiuto del computer - quali figure posso costruire, quali trasformazioni posso realizzare, ... combinando i comandi che ho a disposizione, quali sono i procedimenti più brevi, ... -, al problema della costruzione di un algoritmo per calcolare una certa funzione, ...).

    Qualche esempio relativo a (3) e (5) può essere trovato in [8].

6.4.    Alle difficoltà a comprendere una definizione assiomatica della geometria (vedi fine di 5.6) si affiancano difficoltà a comprendere il ruolo delle dimostrazioni nella geometria elementare, difficoltà per lo più riconducibili al problema della dimostrazione di proprietà "ovviamente evidenti". Io credo che si tratti di una questione non tanto connaturata alla geometria quanto legata al modo in cui viene sviluppato il suo insegnamento (e alla sua riduzione allo studio delle "proprietà di una figura"). Mi sembra che all'origine di queste difficoltà vi siano questioni emblematizzabili con un esempio, tratto dal libro di testo già citato, relativo ai criteri di eguaglianza dei triangoli:

(1)    Si annuncia la dimostrazione dei «criteri di isometria dei triangoli», al fine di «evitare di ricorrere al metodo empirico della sovrapposizione mediante movimento rigido».

(2)    Dimostrazione del 1° criterio. «Se pensiamo di applicare un movimento rigido al secondo triangolo in modo che l'angolo C'A'B' vada a sovrapporsi all'angolo CAB, allora risulta semplice far vedere che C' va a coincidere con C mentre B' va a coincidere con B. A questo punto la verità della tesi è ovvia.»
...

    A parte il fatto che, prima di arrivare a (1), non si viene neanche informati che triangoli che hanno ordinatamente uguali (isometrici) lati e angoli compresi tra lati uguali sono uguali, ... è impressionante la disinvoltura con cui la finalità affermata in (1) viene contraddetta in (2).
    Val la pena notare che le argomentazioni con cui si vorrebbe condurre la dimostrazione in (2) sono, grosso modo, le argomentazioni con cui Enriques e Amaldi nel loro testo giustificavano il 1° criterio come postulato. Per ottenere una dimostrazione occorrerebbe prima dimostrare che le traslazioni e le rotazioni sono isometrie.
    Qualche libro invero lo fa: usando il 1° criterio di eguaglianza dimostra che le rotazioni sono isometrie; poi, usando questo risultato, dimostra il 1° criterio di eguaglianza! Altri, più brutalmente, per conservare un bell'impianto assiomatico ma sbarazzarsi degli assiomi di congruenza, fanno un libero uso del concetto di movimento (due figure sono congruenti se con un movimento una può essere sovrapposta all'altra), senza preoccuparsi di definire che cos'è un movimento (per una corretta sostituzione degli assiomi di congruenza con assiomi che definiscano i movimenti si veda, ad esempio, l'articolo di Guarducci in [9]).

    Questo è il livello di molti libri. Questo è il livello in cui spesso, con sviluppi che contraddicono i programmi ministeriali, si affronta la geometria nella scuola media inferiore. Non molto diverso è il modo in cui alcuni insegnanti che adottavano il bel manuale di Enriques-Amaldi poi lo rendevano incomprensibile con le loro spiegazioni; al riguardo ho ricordi relativi alla mia 4a e 5a ginnasiale.

    Perché scegliere la strada assiomatica per l'insegnamento della geometria se non si è in grado (per non conoscenza, per oggettive difficoltà di motivazione e presentazione didattica, ...) di praticarla? E, se la si sceglie, perché non prendere, ad esempio, tutti e tre i criteri come postulati e dimostrare qualcosa di effettivamente "non evidente"?
    Val la pena di osservare che l'"evidenza" dei criteri di eguaglianza è legata alle possibilità di costruire con le informazioni date un unico triangolo (con riga, rapportatore e compasso), oltre che alle caratteristiche "architettoniche" del triangolo (struttura rigida, non deformabile). E` una situazione diversa, ad esempio, dalla proprietà che le diagonali di un parallelogramma si bisecano o dal fatto che un triangolo inscritto in un semicerchio è rettangolo: in questi casi non è evidente anche "il perché" della proprietà, ma l'evidenza si basa solo sulla verifica che, comunque si prenda il parallelogramma o il triangolo, la proprietà risulta essere soddisfatta.

    Le difficoltà e le perplessità degli alunni di fronte alle dimostrazioni geometriche (così come vengono presentate nei libri e nelle forme di insegnamento più diffuse) nella maggioranza dei casi sono giustificate. Le stesse difficoltà le incontra spesso anche l'insegnante, che comunque, con autorità e senza autorevolezza (contraddicendo, quindi, l'essenza del "dimostrare"), si erge a giudice delle incapacità degli alunni.

6.5.    Del resto non vedo grosse diversità metodologiche tra il dimostrare in algebra (e aritmetica) e il dimostrare in geometria:

–    in entrambi i casi si possono fare congetture e verifiche (vedi 6.3);
–    vi sono proprietà che funzionano su molti esempi ma che poi non valgono in generale sia in algebra (ad esempio proprietà legate al modo di trasformare equazioni) che in geometria (ad esempio l'eguaglianza di due triangoli che abbiano in comune due lati e un angolo e, per fare esempi che non rientrano nella geometria elementare, varie proprietà legate alla concezione intuitiva delle superfici e delle curve: praticando su una superficie un taglio completo, che ritorni su sé stesso, la figura viene divisa in due - ma il nastro di Moebius ... -; la lunghezza di una arco di curva è finita - la verifica con un programma sembra confermarlo, ma prendendo un esempio opportuno ...-; ...);
–    vi sono proprietà che funzionano per tutti i casi in cui si cerca di verificarle ma che è difficile o non si riesce a dimostrare, non solo in aritmetica (c'è un ampio campionario) ma anche in geometria (il teorema dei 4 colori).
    Poi, per dimostrare una proprietà geometrica si può ricorrere a metodi algebrici, per studiare una proprietà algebrica si può ricorrere a una rappresentazione grafica, ...

    Con ciò non si vuol negare che (almeno al livello scolastico) vi siano delle differenze metodologiche:
–    le proprietà dei numeri naturali si prestano meglio di altre ad attività organiche di sperimentazione (si può procedere ordinatamente, passando da un numero al successivo);
–    mentre nel caso delle proprietà numeriche la verifica di una relazione è più "sicura", nel caso delle proprietà geometriche è più facile venire ingannati da illusioni ottiche (non sempre si ricorre a strumenti di misura per fare le verifiche, e, poi, con questi si possono ottenere solo misure approssimate) o fare costruzioni non motivate.
    La prima differenza, tuttavia, sfuma se si pensa al largo impiego che numeri naturali (e principio di induzione) trovano anche in geometria; per qualche proprietà geometrica del tipo "per ogni n ..." si pensi a: "la somma degli angoli di un poligono convesso di n lati è n-2 angoli piatti", "in un poligono di n lati il numero delle diagonali è n·(n-3)/2", "tra i poligoni isoperimetrici di n lati il massimo è regolare", "l'area del poligono di vertici (x1,y1), ..., (xn,yn) è ... ", ... ; sono presenti anche definizioni induttive, ad esempio quella di n-agono ("un n+1-agono è l'unione di un n-agono con un triangolo che ha un lato in comune con esso e ha gli altri due lati esterni ad esso e non adiacenti a suoi lati"), la cui "bontà" si presta a verifiche sperimentali.
    La seconda differenza è più sostanziale. Tuttavia va osservato che anche in algebra si presentano situazioni "ingannevoli"; ad esempio a volte si possono usare a sproposito alcune proprietà algebriche che sembrerebbero evidenti o a volte il risultato ottenuto con un mezzo di calcolo, a causa degli errori di arrotondamento, può far apparire come evidentemente vere [false] relazioni che invece sono false [vere]: termini numerici f(x) e g(x) che da un'estesa tabulazione appaiono equivalenti - o differenti - mentre ciò non è vero, un numero che azzera una funzione polinomiale solo nel calcolo con un computer, ... e, per sconfinare nell'analisi, la verifica erronea di un limite suggerita dalle uscite di un programma, una serie divergente che con un programma appare convergere, ...

    In conclusione mi sembra che la maggiore "difficoltà" di certe attività geometriche sia da collegare anche alla "superficialità" con cui vengono affrontate le attività algebriche (le attività dimostrative sono relegate in geometria, l'applicazione delle proprietà algebriche viene meccanizzata e suddivisa in casistiche, ...).

6.6.    In 5.9 abbiamo discusso criticamente alcuni luoghi comuni sulla natura della matematica moderna, con particolare riferimento alle caratteristiche delle definizioni e al ruolo del metodo assiomatico; alcuni aspetti sono stati approfonditi alla fine di 6.2.
    Si collega ai precedenti luoghi comuni la confusione, abbastanza diffusa, tra (1) le attività didattiche sulla deduzione, (2) quelle sulle definizioni per elencazione di proprietà e (3) quelle sui sistemi assiomatici.
    In 5.6 abbiamo già confrontato (2) e (3). La confusione di (1) con (3) è assai radicata: «se non si affronta assiomaticamente lo studio della geometria come si possono educare gli alunni all'attività dimostrativa?» è l'obiezione a nuove proposte sull'insegnamento della geometria che viene fatta da alcuni insegnanti.
    Invece, come una riflessione sulla (o attività che facciano percepire la) natura dei modelli matematici (vedi 5.9) è prioritaria rispetto alla comprensione del ruolo del dimostrare, così lo sviluppo di qualche abilità dimostrativa (o, almeno, la percezione della natura delle dimostrazioni) è prioritaria rispetto alla comprensione del significato di un sistema assiomatico, e può benissimo essere sviluppata sia in contesti non geometrici (le successive trasformazioni di un termine numerico o di un'equazione, per fare un esempio, non sono forse una catena deduttiva?) che in un ambito geometrico non presentato assiomaticamente.
    La comprensione del ruolo di una definizione assiomatica (non categorica) può essere messo a fuoco solo dopo un'attività matematica su singole strutture. Ad esempio la messa a fuoco del concetto di gruppo può nascere dopo attività con diverse strutture numeriche (numeri reali, numeri naturali, ..., numeri macchina) e non (stringhe con l'operazione di concatenazione, funzioni reali con le operazioni indotte da R o con l'operazione di composizione, particolari classi di funzioni - lineari, polinomiali, trasformazioni geometriche, ...) da cui emergano analogie e differenze: all'origine vi può essere sia l'esigenza di caratterizzare con un nuovo concetto certi comportamenti che quella di economizzare le dimostrazioni, le verifiche, .... Senza un contesto di tal genere non ha un gran che di significatività la scelta di alcune proprietà algebriche dei numeri e la dimostrazione a partire da esse di altre proprietà algebriche che sarebbe banale o più facile verificare direttamente.

6.7.    Affrontando più direttamente l'aspetto (W), si possono delineare almeno tre fasi, anche se non nettamente distinguibili:

(1)    il modo in cui affrontare la dimostrazione,
(2)    il comprenderne l'"idea",
(3)    il seguirla passo per passo.

    In base agli aspetti discussi in precedenza, il cosa e il quando dimostrare, e il come farlo, cioè il come sviluppare ed equilibrare le fasi (1)-(3), mi sembra che vadano considerati tenendo conto che le attività dimostrative non dovrebbero tanto essere i contesti didattici in cui costruire le competenze matematiche degli alunni quanto avere le seguenti finalità:

(a)    far comprendere che cos'è una dimostrazione,
(b)    sviluppare atteggiamenti e abilità relative all'argomentare e al razionalizzare,
(c)    promuovere riflessioni più generali sulla storia e sul ruolo della cultura, con i suoi modelli interpretativi, i suoi sistemi linguistici, i suoi prototipi argomentativi, ...

    Per altro la pretesa di sviluppare le conoscenze matematiche attraverso una sequenza di definizioni, dimostrazioni ed esempi corrisponde a un'impostazione didattica rigida, incapace di tener conto delle diverse modalità di apprendimento degli alunni: o un alunno segue tutto il discorso o si perde (o eventualmente sopravvive memorizzando temporaneamente spezzoni di nozioni e di comportamenti da ripetere).
    Invece con un'attività didattica che miri a sviluppare queste conoscenze in un contesto più ampio (uso delle definizioni e delle proprietà, messa in luce del loro ruolo - nelle attività di matematizzazione e nella organizzazione "interna": economie, approfondimenti, collegamenti, ... tra concetti -, verifica della loro validità su più casi, confronto tra loro diverse possibili formulazioni, ricerca di esse su uno o più manuali o enciclopedie, ... ) è possibile far partecipare tutti (o quasi ...) al "senso" delle questioni man mano proposte, anche se con diversi livelli di autonomia e approfondimento. Ciò può consentire recuperi da parte di chi ha difficoltà tecniche/linguistiche superabili, di chi ha tempi di inquadramento-collegamento più lunghi, di chi ha altre forme "latenti" di apprendimento.
    Anche l'adulto matematicamente colto non sa ricostruire il "perché" di gran parte delle proprietà matematiche che usa (a volte poiché non sa quali premesse deve assumere, a volte poiché la proprietà gli sembra così ovvia che non riesce neanche a inquadrare il problema della sua giustificazione, ...), ma ne sa ricostruire in genere il senso e le motivazioni: la rete di concetti, esperienze, ... in cui l'ha inserita gliene dà un convincimento profondo. In vero esistono anche proprietà più particolari, legate a tecniche specifiche (si pensi ad alcune tecniche di calcolo delle primitive, di calcolo trigonometrico, ...) in cui non c'è né quest'uso ovvio, né questo convincimento profondo; in genere è solo questione di allenamento, di uso meccanico memorizzato temporaneamente, ... , limitato a periodi in cui si impiegano con intensità certe nozioni (gli insegnanti hanno spesso esperienza di ciò, quando cambiano ciclo didattico o tipo di scuola). Ma qui non siamo al livello di competenze matematiche significative; significativa, se mai, è la capacità di consultare formulari, manuali, archivi informatici, software, ... da cui estrarre queste proprietà.
    Del resto anche i matematici (vedi 6.2), a causa della crescita sempre più veloce delle dimensioni della "matematica", restringono sempre più l'ambito delle proprietà che usano avendone studiato anche le dimostrazioni.

    Anche le finalità (a)-(c) sono perseguibili nei confronti di una larga parte degli alunni se affrontate con modalità didattiche sensibili alle differenze di atteggiamento cognitivo e culturale presenti tra essi. In particolare la fase (1), cioè la discussione di come affrontare la dimostrazione di qualche proprietà (opportunamente scelta), diventa più efficace e partecipata se attuata anche attraverso momenti di lavoro in cui gli alunni propongono strategie risolutive, tentano di comunicarle e motivarle in maniera comprensibile ai compagni e all'insegnante, le confrontano collettivamente (con la regia, "discreta", dell'insegnante), ... . Ciò ha vari vantaggi:

–    la dinamica dei tentativi, della correzione degli errori, ... di per sé attiva maggiormente l'attenzione,
–    l'interazione "sociale" facilita la comprensione del ruolo della dimostrazione (stimola i passaggi: dalle intuizioni alla loro delimitazione ed esplicitazione, dal linguaggio con cui si pensa a un linguaggio con cui si espone il proprio pensiero agli altri, dalle opinioni personali alle convinzioni collettive, ...),
–    il fatto che i problemi, le strategie, ... vengano man mano messi a fuoco sulla base delle idee e delle formulazioni linguistiche degli alunni (anche se si tratta di un gruppo ristretto di alunni "trainanti"), rende più accessibile la comprensione da parte di tutti gli alunni (i riferimenti linguistici e concettuali non sono quelli dell'insegnante),
–    si possono far emergere e mettere in discussione fraintendimenti, idee "accettate" ma di cui non si è convinti, ... presenti tra qualche alunno o nell'intera classe.

    In alcuni casi queste discussioni possono condurre alla dimostrazione, in altri casi no, ma facilitano comunque la presentazione dell'"idea" della dimostrazione, cioè la fase (2). Anzi, è utile che emerga la difficoltà del trovare l'"idea": gli sviluppi decisivi della matematica sono segnati da "idee" che sono scaturite solo in presenza di contesti storici e culturali stimolanti e del genio di qualche matematico; non c'è motivo che un alunno si scoraggi se incontra difficoltà di questo genere. In altri casi si può presentare direttamente l"idea" (e in molti altri casi, come si è già detto, si può evitare di presentare la dimostrazione, esplicitandone i motivi agli alunni: è troppo difficile, non è nostro fine vedere tutte le dimostrazioni, ...).
    Del resto, anche nelle discussioni la "discrezione" dell'insegnante (l'attenzione a non "imporre" più o meno esplicitamente le proprie idee, a non focalizzare e valorizzare prematuramente le idee "buone" emergenti, ...) non deve apparire come una presenza "alla pari": è l'adulto colto che sa già le cose e che vuole facilitare la comprensione da parte degli alunni, e che in momenti particolari interviene più decisamente (per porre contraddizioni, per muovere situazioni stagnanti, per sintetizzare gli sviluppi risolutivi, ...).

    In genere, nella pratica didattica "tradizionale", si affronta brutalmente solo la fase (3). Si è detto "brutalmente" perché sono solitamente assenti anche alcune riflessioni che erano presenti in alcuni libri di testo "di un tempo".
    Ad esempio, facendo riferimento a come viene in genere presentata (assiomaticamente) la geometria:

–    le dimostrazioni vengono sviluppate elencando uno dopo l'altro i passaggi dimostrativi, senza vederli mai come frutto della sintesi di un primo approccio analitico, che partendo a ritroso cerchi di individuare quali degli assiomi o delle proposizioni già dimostrate possono essere utili per dedurre la proposizione da dimostrare;
–    non sono presenti attività di osservazione di dimostrazioni errate e di riflessione su alcuni errori tipici (condurre la dimostrazione riferendosi solo ad alcuni casi - ad esempio trascurando il caso in cui un particolare angolo è ottuso, quello in cui un dato lato di un triangolo è maggiore di un altro, ... -, utilizzare l'inverso di un teorema, fare ragionamenti circolari, ...);
–    le dimostrazioni vengono sempre presentate (e la loro ripetizione viene sempre pretesa) rigidamente incanalate in copioni dimostrativi che (senza la fase (2) o senza attività come quelle ora richiamate) per molti alunni diventano il "canone", l'essenza dei procedimenti dimostrativi; ciò è favorito dal fatto che in altri contesti (calcolo algebrico, geometria analitica, studio di funzioni, ...) non viene prestata adeguata attenzione all'obiettivo di educare gli alunni a organizzare il lavoro, a esprimersi in modo non ambiguo, a esplicitare i procedimenti che vengono impiegati, a gestire il foglio di lavoro, ....

6.8.    Oltre alla messa a fuoco del ruolo delle dimostrazioni, sono da perseguire obiettivi più specifici? Non è alla portata della scuola secondaria superiore una attività "matematica" che abbia come specifico oggetto di studio la dimostrazione (vedi 7.1), tuttavia è possibile una riflessione informale sui metodi dimostrativi.
    In particolare è possibile far emergere alcuni schemi di dimostrazione, alcune "strategie" dimostrative, e mettere in luce alcune differenze tra metodi dimostrativi: dimostrazioni dirette e dimostrazioni per assurdo; sperimentazione, congetture, controesempi, principio di induzione, ...; alcune regole di deduzione (e loro rappresentazioni con diagrammi di Eulero); diverse informazioni che fornisce una dimostrazione indiretta di esistenza e una dimostrazione costruttiva; ...
    A proposito delle dimostrazioni costruttive, val la pena di osservare che buona parte delle dimostrazioni per assurdo presenti nei libri in realtà sono cammuffamenti di dimostrazioni costruttive (ad esempio la dimostrazione dell'infinità dei numeri primi in genere parte con: supponiamo per assurdo che esistano solo n numeri primi ..., mentre in realtà si dimostra come, a partire dai primi n numeri primi, si può costruire un nuovo numero primo). Osserviamo, ancora, che non sempre sono possibili dimostrazioni costruttive e che a volte, anche se esse sono possibili, per esigenze didattiche - minore complessità, maggiore trasparenza del significato - può essere preferibile ricorrere a dimostrazioni non costruttive (ad esempio per dimostrare che esistono x e y irrazionali tali che xy è razionale si può osservare che, posto y = √2, se √2√2 è razionale basta porre x = √2, se no basta porre x = √2√2; assai complicata è la dimostrazione che la seconda scelta è quella giusta). Spesso la scelta di dimostrazioni non costruttive è comunque discutibile (ad es. una dimostrazione per assurdo del teorema degli zeri può essere didatticamente meno efficace di una dimostrazione basata sul metodo dicotomico).

    Riflettere su alcuni metodi dimostrativi è importante, oltre che per la comprensione della natura della matematica, anche per le finalità (b) e (c) (in 6.7): queste riflessioni, accanto a quelle sui rapporti tra modelli matematici e realtà (e sul loro cambiamento nel corso della storia), contribuiscono a costruire negli alunni consapevolezza del "valore d'uso" e del "valore come patrimonio storico dell'umanità" delle conquiste linguistiche e argomentative e a sviluppare abilità e attenzioni (nelle comunicazioni, nei ragionamenti, ...) di tipo generale.
    Non ritengo, invece, che queste riflessioni sulle dimostrazioni debbano essere considerate nell'ottica di insegnare/trasferire negli alunni le strategie che impiega il matematico per "risolvere i problemi", cioè, in pratica, per "trovare dimostrazioni". Ciò non solo perché scarto l'obiettivo di fare degli alunni dei "piccoli matematici", ma anche per la complessità dell'euristica (si vedano, ad esempio, [10] e [14] per qualche panoramica parziale delle strategie dimostrative). Forse qualche riflessione organica sulle strategie euristiche avrebbe un senso nel secondo biennio del corso di laurea in matematica, sia per chi farà il "matematico", puro o applicato, che per chi farà l'insegnante.

    Un aspetto importante, anche nel lavoro del matematico, è quello, più personale, del problema matematico come "pura" sfida all'intelletto («vediamo se riesco a ...»). E` un aspetto, in parte anche ludico (per intenderci, ha affinità e intersezioni con la "settimana enigmistica"), da non trascurare nelle attività didattiche. Non credo, tuttavia, che vada privilegiato (nelle discussioni in classe, nell'organizzazione delle verifiche scritte, nelle interrogazioni, ...) rispetto alla dimensione culturale (vedi fine di 4.3). Infatti così facendo si corre il rischio di dare una visione riduttiva dei problemi della matematica (e della attività intellettuale del matematico); ci sono studenti che si iscrivono al corso di laurea in matematica perché si sentono "portati" per questo tipo di attività (quiz di tipo matematico, ...) ma che, presto, (non solo a causa di una cattiva didattica universitaria) incontrano grosse difficoltà e perdono motivazioni perché non riescono a (non si preoccupano di) sistemare organicamente quanto viene loro insegnato.

6.9.    Fin qui abbiamo parlato di dimostrazioni strettamente matematiche. Occorre tener conto che anche le attività di matematizzazione (vedi 5.8) comportano problemi di giustificazione: occorre argomentare la validità del modello messo a punto. Per fare un esempio non troppo standard si pensi al seguente problema:

    Sappiamo che la variazione in un "fissato" intervallo di tempo della temperatura di un corpo è proporzionale alla differenza iniziale dalla temperatura dell'ambiente circostante. Supponiamo di introdurre un oggetto che inizialmente ha la temperatura di 20° (Celsius) in un forno con temperatura costante di 200° e di avere già verificato che se si estrae l'oggetto dopo 5 minuti la sua temperatura è di 65°. Vogliamo sapere dopo quanto tempo l'oggetto raggiunge la temperatura di 195°.

    Per risolverlo (senza metodi differenziali) si può assumere come modello matematico della situazione il sistema: T(0)=20, T(n+1)=T(n)+k·(200-T(n)), T(1)=65 dove T(n) è la temperatura in gradi Celsius dell'oggetto dopo n·5 minuti. Da questo sistema possiamo ricavare k (=0.25) e, infine, tabulando T con una calcolatrice o impiegando un programma, determinare il tempo cercato (è compreso tra 60 e 65 minuti).
    Quest'ultima fase è di tipo puramente matematico. La messa a punto della modellizzazione invece comporta anche la contestualizzazione della legge fisica citata nella situazione in esame, la individuazione del tipo di modello da impiegare (una funzione di variabile naturale per esprimere la temperatura al variare del tempo), la traduzione in equazioni della legge fisica e delle informazioni che si hanno a disposizione (in modo da pervenire a una definizione ricorsiva della funzione), la scelta delle unità di misura da associare ai valori unitari delle variabili, ...
    La stessa legge fisica considerata, per altro, anche se in forma verbale, è essenzialmente un modello matematico, che può essere dedotto con metodi matematici da altre leggi fisiche più generali o può essere verificato sperimentalmente. E la sua validità è condizionata da alcune ipotesi: la supposizione che il forno non subisca modifiche di temperatura in seguito all'introduzione dell'oggetto, l'assunzione dei valori delle temperature come numeri esatti, ...

    In definitiva, la rappresentazione di un fenomeno con un modello matematico comporta anche qualche forma di conferma, più o meno precisa (a seconda della situazione, del tipo di grandezze in gioco, ...), più o meno esplicita (in relazione al livello di "evidenza" della analogia tra fenomeno e modello).

    Nel caso dei modelli di simulazione di tipo probabilistico, in cui, per sfruttare i generatori di numeri (pseudo)casuali, si cerca di ricondurre un certo fenomeno (il lancio di due dadi, la caduta di un oggetto in una data porzione di superficie, il tempo tra due arrivi successivi ad uno sportello, ...) a opportune combinazioni di fenomeni con distribuzioni uniformi, la fase di matematizzazione presenta un intreccio tra argomentazioni matematiche e argomentazioni "esterne" più complesso che in altri casi. Ciò, in ultima analisi, è legato alla natura dei concetti probabilistici: mentre la associazione di numeri reali a grandezze (di tipo fisico, economico, ...) è abbastanza naturale (ci si proietta in una situazione "limite" di misure "esatte", e abbiamo comunque strumenti matematici elementari - le disequazioni - per delimitare chiaramente questa associazione nei contesti operativi), qui abbiamo da associare leggi di distribuzione a fenomeni e non è immaginabile un fenomeno che abbia esattamente una certa legge di distribuzione (in altre parole, il dado equo, cioè la probabilità a priori, non ha senso dal punto di vista delle scienze sperimentali, esiste solo la probabilità statistica: possiamo supporre, sulla base delle osservazioni, che un certo dado sia equo ma non possiamo essere sicuri che da un certo punto in poi non cambi improvvisamente comportamento). Si devono, comunque, fare delle assunzioni "fiduciose" o delle "ipotesi" sul tipo di situazione considerata.
    Naturalmente, a livelli di approfondimento maggiore, queste differenze sfumano (si pensi ad esempio al ruolo che il calcolo delle probabilità ha sia nelle attività di misurazione che nella formulazione di alcune teorie fisiche).

    Queste considerazioni possono sfociare in riflessioni sullo sfruttamento (in matematica) dei rapporti di analogia tra modelli matematici e fenomeni reali e, cambiando la prospettiva, tra concetti matematici e loro modelli materiali, riflessioni che, anche dal punto di vista didattico, sarebbe interessante approfondire.
    Abbiamo accennato (in 6.3) agli sviluppi matematici nati dall'assunzione come risorse matematiche astratte di alcuni strumenti materiali (riga e compasso, macchine che trasformano movimenti, macchine che eseguono calcoli, ...). Abbiamo pure accennato (in 3.3 e, implicitamente, nel penultimo capoverso di 6.4) al ruolo che i modelli materiali possono assumere nelle attività dimostrative. Le dimostrazioni mediante "modelli materiali" sono accettabili se c'è un "isomorfismo" tra il modello e la struttura matematica considerata, e, più o meno esplicitamente, ad esse si ricorre spesso, anche nei primi livelli scolari. Si pensi, in particolare, all'uso dei mezzi di calcolo (dalle dita, all'abaco, ai regoli, ai mezzi di calcolo elettronici), delle rappresentazioni grafiche (su carta quadrettata, millimetrata, ..., sullo schermo del computer, più o meno automatizzate), degli strumenti da disegno, ... .
    L'uso delle calcolatrici e dei calcolatori elettronici, per altro, offre spunti per riflessioni esplicite su quest'isomorfismo (che, invero, è "parziale": differenze tra numeri naturali, numeri reali e corrispondenti numeri macchina). Con diversi livelli di approfondimento a seconda della classe e del tipo di scuola, queste corrispondenze sono analizzabili più in dettaglio: per intenderci, dagli automatismi per realizzare la conta o la verifica della congiunzione di due condizioni al calcolo analogico (analogie tra circuiti elettronici ed equazioni differenziali). Sull'uso dei calcolatori ci soffermeremo successivamente (vedi 7.2).
 

7. QUESTIONI COLLEGATE

7.1.    Strettamente collegata alle questioni del definire e del dimostrare è la questione del linguaggio matematico, o, meglio, dei linguaggi della matematica.
    Gli sviluppi della matematica stessa, l'estensione delle sue applicazioni, la diffusione del fenomeno dell'automazione, con la conseguente presenza sempre più estesa (nella vita quotidiana e nelle professioni) di codici, linguaggi artificiali, ... hanno accentuato l'importanza (nell'insegnamento della matematica) dell'attenzione ai "fatti linguistici": riflessioni sull'ambiguità, e la potenza, del linguaggio naturale, sui linguaggi specializzati e sul ruolo delle definizioni e dei simboli, ... ; distinzione tra sintassi e semantica, ruoli diversi che i nomi di variabile possono assumere in un'equazione (valore costante o variabile o "parametro", cioè con diversi livelli di "quantificazione"), esplicitazione delle convenzioni linguistiche che si assumono, ...; uso di schematizzazioni (grafiche o simboliche) per discutere l'equivalenza di alcune formulazioni, per esplicitare alcune forme di ragionamento, ....

    Non si tratta, assolutamente, di fare della logica matematica, quanto, eventualmente, di un'educazione logica intesa in senso lato, cioè riferita ai significati più ampi attribuibili al termine "logica", collegati alle questioni della razionalizzazione, della precisione linguistica, della esplicitazione delle argomentazioni, dell'ordinamento "logico" di una disciplina, ... Per considerazioni più estese sull'educazione logica rinvio a [5] (in cui sono contenuti anche alcuni approfondimenti relativi al definire e al dimostrare nella scuola secondaria superiore: definizioni di concetti matematici che non hanno diretti riscontri intuitivi, ruolo della formalizzazione logica, ...) e a [6] (in cui sono particolarmente approfonditi i rapporti tra logica, ragionamento e linguaggio, con riferimenti generali, non solo alla scuola elementare, e sono presenti utili indicazioni bibliografiche).
    Per ulteriori approfondimenti rinvio a due manuali di logica matematica:
–    [11], che è impostato in modo da rendere particolarmente chiari il ruolo (nella ricerca matematica avanzata) della formalizzazione dei linguaggi e la differenza tra la consequenzialità "semantica" ("da A segue B se ogni struttura che verifica A verifica anche B"; è ad essa che, in genere, fanno riferimento le dimostrazioni matematiche) e la nozione di derivazione formale,
–    [13], che contiene anche discussioni ed esemplificazioni delle differenze tra il linguaggio e la deduzione naturali e il linguaggio e la deduzione della logica matematica.
    Tra l'altro [13], citando una famosa ricerca di Lurja (una persona con un grave danno cerebrale che, nonostante non fosse in grado di affrontare quesiti relativi all'interpretazione di elementari connessioni sintattiche, elementari calcoli aritmetici, ..., era in grado di analizzare e descrivere in maniera elaborata le proprie difficoltà linguistiche), mette bene in luce i rischi di un'impostazione formalizzata della presentazione della matematica: il fatto che operazioni logicamente complesse possano essere compiute in un singolo atto di pensiero da un cervello gravemente danneggiato mentre operazioni logiche elementari richiedano un intelletto altamente allenato evidenzia che la mente umana non è adatta ad analizzare i testi formali. Da [13] mi piace citare anche uno spot contro la tendenza a dare alla logica matematica una collocazione fondazionale invece che matematica: «la logica è in grado di giustificare la matematica non più di quanto la biologia sia in grado di giustificare la vita». Di [11] voglio ricordare in particolare la Prefazione, che con alcuni esempi e "messaggi" particolarmente efficaci fa percepire il ruolo della logica matematica.

    Tra i linguaggi della matematica, meriterebbero un approfondimento didattico più specifico (anche in relazione alla questione delle argomentazioni) i linguaggi del disegno, sia informale che più formale o formalizzabile (grafi, ...).

7.2.    Un'altra questione collegata alle problematiche che stiamo discutendo è quella dell'impiego del calcolatore, a cui ho già accennato più volte.
    Innanzi tutto è da osservare che è presente una certa tendenza a sostituire nel suo ruolo culturale la matematica con l'informatica, tendenza che trova riscontri a vari livelli: nel senso comune, in alcune sperimentazioni didattiche, nei cambiamenti dei programmi scolastici di alcuni paesi, in certi aspetti dell'organizzazione del lavoro intellettuale (almeno in Italia, sia nel pubblico impiego che nella media e grande industria) e in molti fatti più "spiccioli", come ad esempio l'organizzazione delle librerie (prima i libri di informatica non avevano una sezione specifica ma erano collocati nella sezione "matematica", ora è sempre più frequente il fenomeno opposto).
    Questo processo mi sembra sia da collegare alle concezioni che finalizzano sia l'insegnamento della matematica che quello dell'informatica all'educazione al rigore linguistico, al "lavoro astratto", ... : di fronte agli insuccessi di un'insegnamento della matematica così concepito è comprensibile privilegiare l'informatica.
    Infatti si possono affrontare attività di programmazione (o di impostazione di un foglio di calcolo o ...) che presentano livelli di complessità e di operatività confrontabili o maggiori di quelli in genere raggiungibili nell'insegnamento della matematica e gli studenti sono più motivati e gratificati, non solo perché l'educazione all'uso del calcolatore appare come più "utile" nella vita, ma anche per il fatto che il rigore nell'uso del linguaggio trova giustificazioni e forme di controllo semantico nella comunicazione con la macchina e per la maggiore autonomia nell'apprendimento e nella valutazione che offre il calcolatore: possibilità di autocontrollarsi, di riprovare, di gestirsi i tempi, di procedere in più modi, per approssimazioni successive, da un particolare o dal generale, mettendo insieme o riaggiustando pezzi di cose già fatte,..., anche se il modo in cui nelle scuole viene organizzato l'uso dei mezzi di calcolo a volte è modellato su come si lavorava prima che esistessero i personal e i pocket computer (mezzi di calcolo solo in laboratorio, un'ora alla settimana, arrivando già con la versione finale dei programmi), compromettendo queste potenzialità.

    Per contrastare questa tendenza mi sembrano importanti le considerazioni svolte alla fine di 4.3. Non si tratta solo di "difendere" la matematica, ma anche di prendere i considerazione i limiti di una delega all'informatica dell'educazione all'uso razionale del linguaggio. Rispetto al "latino" e alla matematica sono maggiori i rischi dell'addestramento su livelli interni, della mancanza di riferimenti a dimensioni sociali e culturali più ampie, dell'appiattimento sull'"oggi": non solo perché l'uso scolastico delle risorse informatiche è condizionato da fattori tecnologici e di mercato, ma anche per il fatto che una comprensione del ruolo dei mezzi di calcolo, del loro impiego nella modellizzazione della realtà, della loro natura tecnologica, dei metodi di programmazione, ... è affrontabile solo con adeguati strumenti matematici, strumenti che l'insegnamento dell'informatica può in parte motivare ma non può rimpiazzare.

    Gli aspetti che ho citato come fattori del successo dell'informatica presso i giovani possono invece trovare collocazione in un insegnamento della matematica che faccia ricorso (anche) ai mezzi di calcolo. Per restare nell'ambito del nostro tema (uso del linguaggio, delle argomentazioni, ...) mi sembra che siano da richiamare almeno i seguenti punti:

–    la riflessione sul calcolatore (hardware+software di base) come macchina che comunica, "ragiona", sa e fa matematica: modellizzazioni del suo funzionamento, matematica che ha incorporata e forme in cui la rappresenta, natura formale dei linguaggi per comunicare con esso, metodi per analizzare e trasformare espressioni linguistiche, ...
–    il calcolatore per fare matematica: uso di sperimentazioni numeriche per congetture, verifiche, ...; uso di metodi numerici, di programmi di calcolo simbolico, ... e nuovo spazio didattico per riflessioni su aspetti meno meccanici della matematica, messa a fuoco di quali sono le attività matematiche più significative, riflessioni su come cambia il modo di fare e usare la matematica, ...; uso dei menu dei programmi di calcolo simbolico e comprensione (e uso più corretto) delle tecniche per la manipolazione di termini e formule algebriche; ...
–    aspetti "linguistici" più specifici: nelle attività di programmazione la distinzione dei tipi di errore, l'uso delle istruzioni di controllo (if condizione then ...) in cui appare chiara la differenza tra verità e correttezza di una formula, ... facilitano la comprensione delle differenze tra aspetti sintattici e aspetti semantici; la collocazione delle istruzioni di input e di output, l'uso di cicli nidificati, l'uso di sottoprogrammi, ... permettono di chiarire i diversi livelli di "variabilità" (di legame, quantificazione) delle variabili, ...; definendo o esplorando la semantica delle parole chiave (if-then, while, connettivi, ...) si può meglio precisare la differenza tra linguaggi formali e linguaggi naturali; ...
–    il calcolatore per rappresentare modelli matematici, modelli matematici per simulare fenomeni "reali" con il calcolatore: attività di questo genere comportano definizioni, argomentazioni, verifiche, precisazione delle differenze tra situazioni e loro modelli, ...

    Mi sembra che siano di questo genere i contesti in cui abbia un ruolo significativo l'impiego del calcolatore. Il fare "piccoli informatici", usare linguaggi o pacchetti specifici per insegnare la "logica", ... mi sembrano invece obiettivi pretestuosi e fuorvianti rispetto all'educazione matematica. Per intenderci, far usare un pacchetto che presenta giochini sul calcolo dei predicati e continuare a dire che x=x o 3=3 non sono equazioni ma identità (confondendo sintassi e semantica, senza porsi il problema di come usando regole per trasformare equazioni si possa passare dall'equazione 2x-7-2(x-5)=3 alla non-equazione 3=3, ...) sono solo efficienti metodi didattici per scoraggiare l'intelletto alla comprensione.
 

8. CONCLUSIONI

    Ho toccato molti temi, senza analizzarne "a fondo" alcuno in particolare: mi sembra che (almeno per il nostro nucleo di ricerca) sia prioritario inquadrare la problematica nella sua complessità. Infatti non conosco (almeno "io") molti lavori che abbiano dato contributi generali, ma non generici, sulla questione dell'educazione matematica in questa fascia scolastica (a meno che non si vada ai tempi di Enriques, o alla metà degli anni '60, in cui, però, le esigenze educative, per fattori disciplinari, culturali e sociali, erano diverse). Tra i pochi segnalo in particolare [2], che offre molti spunti di riflessione sui problemi dell'insegnamento/apprendimento della matematica nella fase adolescenziale.

    "Contestualmente" alla messa a punto e alla sperimentazione del nostro progetto, cercheremo di approfondire le questioni qui accennate. L'intreccio tra considerazioni "disinteressate" e considerazioni "finalizzate", tra riflessioni "a priori" e riflessioni "a posteriori", speriamo ci permetta di individuare soluzioni didattiche che possano dare un effettivo contributo all'aumento della produttività del sistema scolastico.
 

RIFERIMENTI

[1]    AA.VV., Costruendo il progetto MaCoSa: anno 1, Rapporto Tecnico del nucleo di ricerca didattica MaCoSa, Dipartimento di Matematica dell'Università, Genova, 1992 (in preparazione)
[2]    P. Boero, Insegnamento della matematica tra 12 e 16 anni: un punto di vista, relazione al "Tamas Varga memorial day", Budapest, 1991
[3]    C. Bernardini, Che cos'è una legge fisica, Roma, 1983
[4]    C. Dapueto, Metodo scientifico e insegnamento scientifico, relazione al 5° Convegno Nazionale del C.I.D.I., Roma, 1982
[5]    – , Linguaggi e modelli nella scuola secondaria superiore, Atti degli incontri di Logica Matematica, vol. 5 (1989)
[6]    – e P.L. Ferrari, Educazione logica ed educazione matematica nella scuola elementare, L'insegnamento della matematica e delle scienze integrate, vol. 11 (1988)
[7]    – e F. Furinghetti, Un'esperienza di lettura critica dei Nuovi Programmi di Matematica per il primo biennio della scuola secondaria superiore, Insegnare (in corso di stampa)
[8]    – e S. Greco (a cura di), Calcolatore e insegnamento della matematica, Rapporto Tecnico del nucleo di ricerca didattica MaCoSa, Dipartimento di Matematica dell'Università, Genova, 1991
[9]    F. Enriques (a cura di), Questioni riguardanti le matematiche elementari, Bologna, 1924-1927
[10]    D.E. Knuth, Algorithmic thinking and mathematical thinking, Amer. Math. Monthly, 92, 1985
[11]    G. Lolli, Lezioni di Logica Matematica, Torino, 1978
[12]    – , La dimostrazione in matematica: analisi di un dibattito, Bollettino U.M.I., 6, 1982
[13]    Y.I. Manin, A Course in Mathematical Logic, New York, 1977
[14]    A.H. Schoenfeld, Teaching problem-solving skills, Amer. Math. Monthly, 87, 1980


(*) Su questo aspetto (impostazione dell'insegnamento della probabilità), rispetto all'epoca in cui abbiamo steso questa relazione, all'inizio delle attività di progettazione, il gruppo ha cambiato punto di vista: nel Progetto è stato sostanzialmente seguito un approccio assiomatico: la probabilità come misura con proprietà analoghe a quelle della frequenza percentuale.