Cronache di poveri amanti, pubblicato nel 1947, dipinge un quadro indimenticabile della Firenze dei primi anni del fascismo. In via del Corno, la strada (dietro a Palazzo Vecchio) del vecchio quartiere fiorentino dove Pratolini trascorse la sua adolescenza, si assiepa e vive, con storie private e comuni, un mondo di uomini e donne le cui esistenze si intrecciano, s'illuminano a vicenda, aprendosi ora alla speranza e all'amore, ora ripiegandosi nel dolore e nella morte. Tradotto in oltre venti lingue, trasformato in film da Carlo Lizzani nel 1954, Cronache di poveri amanti è stato uno dei maggiori successi mondiali del dopoguerra.
   Le Cronache sono la rappresentazione della Firenze operaia e artigiana nel periodo in cui il Fascismo in ascesa, rafforzandosi sempre più, comprimeva la forza e la vitalità della classe operaia. Tutta la vicenda è narrata come da uno che da una finestra di Via del Corno (e in questo caso molto gli somiglia la Signora che tiene sempre vigili e osservanti le sue ancelle) osservi ogni movimento e ogni persona, per dedurne pensieri, passioni, iniziative, delitti, sofferenze. Via del Corno, è in fondo, il palcoscenico in cui si sintetizza, oltre al dramma dei suoi abitanti secolari, anche la vicenda antifascista di Firenze. La città vi respira dentro, anche se quelli di Via del Corno non vogliono. Qui il Quartiere è divenuto un fatto psicologico e umano, quasi perdendo il suo carattere topografico. E l'autobiografia stessa è divenuta storia, storia drammaticamente rappresentata. Una storia anzi che è proiezione della speranza collettiva della classe operaia.
   Il vitalismo, l'ottimismo, l'aura felice che, nonostante la miseria e le sventure circolino in Via del Corno, trovano una spiegazione nel momento estroverso e fiducioso che Pratolini attraversava negli anni tra il 1944 e il 1946, quando il Comunismo sembrava potesse arrivare al potere. Questa fiducia gli fece intuire una felicità che nella realtà della loro esistenza i suoi personaggi non avrebbero mai potuto avere, tanto che può sembrare giusto sostenere che tra la realtà storica e la realtà narrativa di Pratolini ci sia una vera scissura. "Così Maciste, e tutte le figure positive e felici del vitalismo pratoliniano, nelle Cronache e negli altri libri, sono figure piuttosto di un sogno collettivo a cui Pratolini generosamente si abbandona, figure assai più della irrealtà, che negano con la loro esistenza tutta la realtà che sotto e da intorno le minaccia, piuttosto che figure di una realtà" (LONGOBARDI).
   Ma la realtà del Quartiere e di Via del Corno è rimasta una cosa realissima, una storia popolare ricostruita in romanzo, anzi in un romanzo che esclude e taglia fuori subito l'io autobiografico, che soleva caratterizzare gli altri scritti precedenti di Pratolini.
   Pratolini in questo romanzo "procede a trasferire il suo vecchio mondo in una dimensione più vasta ove la ricchezza sentimentale (la simpatia umana) sia un valore non più lirico e privato ma collettivo e politico. L'ambiente e la materia sono sempre i suoi: Firenze, i quartieri poveri, la lotta del popolo minuto contro il Fascismo e la miseria. La bravura, sia quella coloristica e figurativa, sia quella compositiva, si è irrobustita. Ma il tono è diverso: talora punta sull'epico, sulla saga (la notte dei miracoli) e sfiora l'illustrativo; talora forza la sua spontaneità e adopera la commozione come una rivendicazione sociale. La prosa ha perduto in autenticità quel che guadagnava in sapienza; egli è stato costretto a manovrare i suoi personaggi e fissare per loro un itinerario di comodo lungo il quale si disponessero al taglio giusto per la sua commozione. Il segno dello stile si faceva più grosso. Limpeto delle apparizioni e delle immagini figurative era sempre felice; ma l'ideologia s'incarnava in una scenografia, nella quale gli autentici personaggi pratoliniani (qui perfetta la signora) si trovavano spesso a disagio" (PAMPALONI).
   Certamente proprio nel personaggio di Maciste si avverte questa sovrapposizione dell'ideologia sulla drammaticità scenografica, quando nel corso della famosa notte dell'apocalisse Firenze viene sconvolta dalle orde fasciste assetate di sangue e di vendetta. In quella notte Ugo prega Maciste di prendere il sidecar e avvertire alcuni parlamentari e uomini antifascisti di nascondersi per sfuggire all'attacco degli squadristi inferociti e guidati dal Pisano, insieme a Carlino e Osvaldo, due poveracci che cercano di far carriera nel partito.
   L'azione di Maciste in quella occasione non è propriamente condotta in chiave rigorosa di disciplina di partito; egli è un comunista a cui il Partito ha affidato un incarico di responsabilità, ma si comporta come un uomo fatto di carne ed ossa, improntato ad un generoso sentimento di comprensione e di solidarietà umana.
   Il vitalismo umano che circola tra le pagine del libro, specie nella seconda parte, supera e si sovrappone alla stessa ideologia comunista, o meglio a quella incertezza ideologica politica che caratterizzò in quegli anni non solo Pratolini ma molti altri uomini di cultura, uniti nella lotta antifascista eppure assai incerti e in disaccordo nel ricostruire la società dopo il Fascismo; in questo senso il romanzo scopre anche la carenza storica e politica che caratterizzò gli anni dal 1944 al 1947, per cui quelle figure realistiche di Pratolini sono apparse in verità come simboli di una speranza, di una volontà, di un'attesa di solidarietà sociale, più che espressioni autentiche di una realtà sociale. I suoi personaggi, insomma, non sono altro che proiezioni, figure di quel che avrebbero dovuto essere, ma in realtà non sono ancora. La loro umanità è come protesa nel futuro, nell'attesa di un mondo migliore. Ma intanto essi hanno superato quel momento di stasi cantato da Montale "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", in effetti essi ora sanno di volere, vogliono essere qualcosa. Questa ottimistica visione eroica dell'uomo è il messaggio più autentico del romanzo.

   TRAMA del romanzo e del film. Intorno al 1925, Mario (Gabriele Tinti), giovane tipografo fiorentino, per essere piu' vicino alla sua fidanzata, Bianca (Eva Vanicek), va ad abitare nella breve via del Corno e fa amicizia col maniscalco «Maciste» (Adolfo Consolini), suo padrone di casa, e col fruttivendolo Ugo (Marcello Mastroianni), tutti e due antifascisti. Accade che Alfredo Campolmi (Giuliano Montaldo), proprietario di una pizzicheria, essendosi rifiutato di versare certi contributi al partito, viene selvaggiamente bastonato dai fascisti. Al capezzale del Campolmi, all'ospedale, Mario incontra spesso la di lui moglie Milena (Antonella Lualdi), amica della sua fidanzata, Bianca, e se ne innamora: egli rompe il fidanzamento con Bianca. In un conflitto notturno con gli squadristi, Maciste viene ucciso; Ugo, ferito, si rifugia in casa della «signora» (Wanda Capodaglio), una strozzina che controlla gli interessi della contrada. Essendosi innamorato di Gesuina (Anna Maria Ferrero), la servetta, Ugo, una volta guarito, la sposa. Mario e Milena si sono confessati il loro amore, ma, per pieta' verso Alfredo, decidono di non frequentarsi e di aspettare la sua guarigione prima di intraprendere ogni passo. Mario, che aveva assistito alla uccisione di Maciste, nel frattempo ha iniziato a svolgere attività antifascista anche lui. Alfredo muore, e poco tempo dopo, successivamente ad Ugo, anche Mario viene arrestato dalla polizia, e in quella occasione da' il primo bacio a Bianca (che lo cercava per avvisarlo che lo volevano arrestare).